VISTE CON IL SENNO DI POI: Quando Maria Sharapova non era ancora nessuno, già qualcuno sapeva che…

Author mug

Rubrica curata da

RICCARDO BISTI

15 agosto 2007 - Ho sempre apprezzato gli articoli scritti su grandi campioni…prima che questi diventino famosi. Perché sono, come dire, “onesti”, liberi dai luoghi comuni che inevitabilmente piomberanno non appena il giocatore acquisterà un briciolo di notorietà. Anni addietro, su Matchball c’erano due rubriche molto interessanti, “Saranno Famosi” e “Made in Italy”, che andavano a scovare giovani emergenti. Col senno di poi qualche volta ci hanno azzeccato, altre no, ma restano le preziose testimonianze su un mondo, quello del tennis giovanile, molto complesso e di difficile lettura. Il pezzo che proponiamo qui è scritto dal talent scout Fabio Della Vida, quando Maria Sharapova non aveva ancora vinto nulla ed era al massimo considerata l’erede delle Kournikova nel ruolo di “super-gnocca” del tennis. Della Vida, che la conosce da bambina, sapeva che quella ragazza sarebbe andata lontana, e si lanciò in un pronostico che 4 anni fa non era mica così scontato… (da “Il Tennis Italiano”, novembre 2003)

NON SOLO MODA

Di FABIO DELLA VIDA

Circa cinque anni fa ero a Miami per una breve vacanza prima del Lipton, e come ogni bravo turista ero a mangiare al mitico Joe’s Stone Crabs, uno dei migliori ristoranti del mondo, quando mi sento chiamare: era Gavin Forbes, un mio collega americano, ex discreto giocatore e oggi responsabile per il tennis per la nostra compagnia, la IMG. Dopo i convenevoli mi dice di aver anticipato il suo viaggio da Indian Wells perché l’indomani doveva vedere e tirare due palle con una ragazzina russa di dieci anni che gli avevano descritta come eccezionale.
“Anzi, già che sei qui – mi dice – vieni con me domani, così mi dai la tua opinione…”
“Come si chiama?” Domando.
“Maria Sharapova, ne hai sentito parlare?”
“Mai. Gavin, vedrai che sarà una perdita di tempo. Sapessi quanti mi domandano di andare a vedere i loro figli che per loro sono fenomeni”.
“Comunque tu sei il capo – conclusi scherzando – e gli ordini non si discutono!”.
L’indomani di buon ora, imprecando contro me stesso e sfottendomi per come sfrutto i miei giorni di vacanza, andai ai campi del Sonesta Beach a Key Biscayne, non senza avere invidiato tutti quelli che svoltavano per le varie spiagge di quell’incantevole località. Arrivato ai campi vidi uno scricciolo di ragazzina, alta un soldo di cacio, con un delizioso faccino biondo, sorridente, accompagnata dai genitori, molto ma molto più tesi di lei. Gavin mi spiega che i genitori avevano sentito parlare di noi tramite un coach di Bollettieri e quello doveva essere una specie di provino per avere una scolarship (una borsa di studio) all’Accademia. E Gavin voleva farlo personalmente. “Per questo – mi disse adulandomi non poco – sono contento che tu sia qui”.
Fatte le presentazioni si comincia a giocare…
Ora devo fare un passo indietro e dirvi che nel mio lavoro ho vissuto questa esperienza, cioè osservare per la prima volta palleggiare dei ragazzini almeno 500/600 volte, e che nel 95% di queste occasioni sono rimasto indifferente. Però ho anche avuto la fortuna di vedere in azione piccoli giocatori come Sampras, Ivanisevic, Courier, Korda, Capriati, Seles, Hingis, Majoli, Hantuchova, Kournikova, Henin e Cljisters quando ancora non erano nessuno.
E quando capita una fortuna così è come per un appassionato di musica vedere Chopin a 10 anni suonare il piano, per un amante d’arte osservare Giotto da piccolo mentre disegna ed intuirne il talento. Non so come spiegarlo a parole: ti scatta un qualcosa dentro per cui rimani estasiato e capisci di essere di fronte a qualcosa di eccezionale.
Bene, questo era ciò che mi stava accadendo quel giorno a Miami. Il rumore della pallina sempre colpita al centro del piatto corde della racchetta, il movimento dei piedi, l’andare sempre incontro alla palla, l’attenzione con cui giocava, mi fecero comprendere che ero di fronte a qualcosa fuori dall’ordinario. Fu quel giorno che la IMG decise di investire su Maria Sharapova e successivamente, pur non lavorando direttamente per lei, ho avuto il piacere di conoscere bene sia Maria che i suoi genitori Yuri ed Elena.
Oggi Maria è una gran bella ragazza, da tutti indicata come una futura superstar. Ma secondo me nella sua testa poco è cambiato rispetto a quel giorno a Miami. Lei in quell’occasione, nel suo inglese già discreto, mi disse che voleva diventare la numero 1 del mondo. E oggi mi dice le stesse cose. Tutto ciò che ha fatto, che fa e che farà è pensato e fatto in questa ottica. Ho seguito Maria negli anni successivi in tutti i suoi progressi, nelle sue difficoltà quotidiane e debbo dire che è sempre stata a mio avviso una spanna sopra a tutte le altre pur brave ragazze che avevamo da Bollettieri; ragazze come Tatiana Golivin (oggi campionessa europea under 18) o Jamea Jackson. Era superiore non solo tennisticamente ma anche di “testa”. Perfetta persino quando si trattava di fare stretching o defaticamento. Capace di essere, anche dopo una brutta sconfitta, sempre positiva, puntuale, in grado di esprimere molta personalità. Maria ha passato tennisticamente un difficile momento all’inizio di quest’anno quando è cresciuta tantissimo passando da un metro e 72 a 1.85 circa. Questo “salto in alto” comporta delle difficoltà di coordinazione, e quindi di velocità e di spostamento, notevolissime.
A Miami (sempre lì) perse facile dalla Callens e ne sentii di tutti i colori su di lei da parte di giornalisti, addetti ai lavori ecc ecc…che già la davano per montata, viziata. Spesso mi chiedo come è possibile che gente del genere sia catalogata come esperta…Dopo quella partita incontrai lei e suo papà e volli consolarla dicendole quello che pensavo e cioè che, nonostante la sconfitta, ero contento perché la vedevo migliorata e avevo notato che quando poteva colpire bene la palla partivano dei veri missili. Mi ringraziarono e mi dissero entrambi che le critiche facevano parte del gioco. Non colsi il minimo accenno di scoramento in Maria: la sua confidenza era intatta e questo mi rafforzò nella convinzione di trovarmi di fronte a qualcuno veramente speciale.
Se c’è una cosa che Maria odia è quella di essere paragonata alla Kournikova o di essere richiesta solo perché è una gran bella figliola. Qualcuno la ricorderà per aver giocato in Italia il torneo dell’Avvenire 2000 (perse in finale da Shuai Peng, una cinesina dal gran talento ma senza la sua determinazione feroce). Lì cominciarono a fare il paragone con Anna K. E lei non lo gradì affatto: vuole giocare a tennis, vuole essere considerata soprattutto per questo. In questi anni tutte le volte che ho visto Maria Sharapova l’ho sempre trovata migliorata (questo è un aspetto importantissimo in un giocatore) ed in questo è stata molto aiutata dai genitori, persone intelligenti che hanno capito di avere una figlia dal talento eccezionale e che l’hanno aiutata e sostenuta in decisioni difficili (vedi quella di andare adallenarsi a Los Angeles da Robert Lansdorp, decisione rivelatasi poi giustissima). Tennisticamente il bello di Maria sono i suoi margini di progresso, ancora enormi. Infatti ancora deve adattarsi perfettamente alla sua crescita (speriamo non diventi troppo alta. Non dovrebbe perché i suoi genitori sono alti si, ma non altissimi. Come è adesso, o due o tre centimetri in più, va bene. Oltre potrebbe essere forse un problema). Una volta adattatasi ai suoi centimetri potrà svolgere una preparazione ad hoc, rinforzarsi, migliorare il servizio e soprattutto tirare ancora più forte di quello che già fa oggi. Io sono un osservatore di parte, perché le sono molto affezionato, è giusto dirlo, ma la vedo veramente fortissima, pronta per vincere qualcosa di molto importante nei prossimi due o tre anni. Per adesso oggettivamente mi aspetto ancora qualche sconfitta impensabile forse sulla carta ma probabile visto il suo fisico molto, molto in divenire.
Per concludere, se dovessi paragonarla a una campionessa sceglierei Monica Seles. Non tanto per il tennis in sé (Monica, secondo me, sul piano tecnico e del talento puro non ha oggi e difficilmente avrà domani rivali, mentre Maria sarà molto più forte atleticamente) quanto per quella feroce determinazione, per la maniacalità con cui curano i particolari della loro vita non solo tennistica. E per la voglia di emergere, di vincere sempre, che entrambe hanno.

————————————————————————–

23 maggio 2007 - Sull’ultimo numero di una rivista specializzata appare un’intervista a Roger Federer: leggendola capirete quanto sia dolce la vita del numero 1. Fuori dal campo, Federer può dedicarsi a orologi, Dolce e Gabbana, Prada, Luis Vuitton e andare a caccia dei migliori ristoranti. Leggendo le parole di Re Roger, è tornata in mente un’inchiesta, apparsa 5 anni fa sulla stessa rivista, dove Lorenzo Cazzaniga raccontava, e faceva raccontare dai suoi protagonisti, l’inferno dei tornei challenger. Teatro del reportage: Ho Chi Minh City, Vietnam. Per capire che il mondo del tennis non è solo soldi, gloria, donne e bella vita. (da “Il Tennis Italiano”, aprile 2002)

IO…SPERIAMO CHE ME LA CAVO

Di LORENZO CAZZANIGA

HO CHI MINH CITY. L’urlo si levò solenne all’ennesimo rovescio ciccato:”Che campo di merda!” Dimenticava, il peone, di trovarsi ad Ahmedabad, in India, dove certi campi sono messi insieme compattando sterco animale. Non ci giocheranno mai un Grand Slam o un Masters Series, ma nell’inferno del circuito challenger è solo il principio di una lunga serie di anomalie che ci ricordano come il mondo del tennis non sia popolato unicamente da coccolate star che viaggiano in “first”, alloggiano in suite e si muovono in limousine. C’è invece anche un intero sottobosco dove oltre 700 giocatori combattono ogni anno per approdare nell’Olimpo del tennis, traguardo concesso solo a pochi eletti.
Siamo andati a cercarli a 9.000 miglia di distanza, a Ho Chi Minh City, un tempo Saigon. L’approccio è timoroso: pare che nell’ hotel ufficiale siamo avvistati topi di dimensioni feline. Molti giocatori hanno preferito investire 62 dollari a notte per una stanza più accogliente.
Li abbiamo seguiti, i giocatori. Impresa peraltro non facile: in un qualsiasi Masters Series non ti può capitare di non riconoscere i protagonisti: la testa pelata di Andre Agassi, la faccia lentigginosa di Lleyton Hewitt, il sorriso contagioso di Guga Kuerten. A spulciare invece l’entry list del Saigon Challenger, sembra di aver tra le mani la lista degli ospiti del Costanzo Show: dagli Stati Uniti, Eric Taino e Doug Bohaboy; da Israele, Amir Hadad; dall’Indonesia Suwandi Suwandi; dal Vietnam l’idolo locale Chi Khuong Huynh. E chi c…. sono? La vedette è l’olandese John Van Lottum, ma c’è anche Gilles Muller che l’anno scorso ha fatto finale a Wimbledon. “Già, tra i ragazzini però – si schernisce – Qui non interessa a nessuno se sei il campione del mondo juniores. Per loro sei solo il numero 400 del mondo. Questi tornei sono da prendere in punta di piedi: se ti presenti strafottente e fai il “ganassa” torni a casa con le ossa rotte”.
In effetti basta dare uno sguardo ai primi turni per accorgersi che tecnicamente c’è di tutto un po’. Vedi Doug Bohaboy, una sorta di novello Merlo, quadrumane che cambia mano d’appoggio giocando in effetti due rovesci. C’è Takao Suzuki che attacca sempre perché da piccolo in Giappone trasmettevano solo Wimbledon, è lui è cresciuto pensando che si potesse giocare solo così. E poi il suo amico Takahiro Terachi che per tre giochi ti sembra Kafelnikov pitturato di giallo: poi ti accorgi che se tira vento gli serve la zavorra per reggersi in piedi.
E ancora, Amir “cinquepance” Hadad (c’è bisogno di un commento? Pure Chenot avrebbe di che sudare) e Zack Fleishman, che ha litigato con Madre Natura Tennis fin dal principio: impugna da metà manico fin su al cuore, arrotolando l’overgrip anche sugli steli. Mai visto prima.

E gli italiani? Nel nostro piccolo abbiamo Alessio Di Mauro. Siciliano, è la quintessenza del pallettaro, il figlio che Dibbs e Solomon avrebbero voluto. Racconta l’interessato: “Al challenger di Bressanone giocavo contro Bozic. Per un set non vedo palla, poi inizio ad alzare pallonetti ad oltranza. Ma pallonetti veri, di quelli che si vedono nei tornei femminili di quarta. Bozic, per prendermi in giro, fa lo stesso, cercando di irritarmi. A me, il re del pallonetto! Da 1-4 sotto, rimonto fino al 6-4 3-0. Ogni punto durava cinque minuti. All’ennesimo pallonetto Bozic non resiste, ferma la palla con le mani e dice all’arbitro:”Ma…questo non è tennis!”. L’arbitro, ormai appisolato sul trespolo e in pieno stato confusionale gli dà ragione. “Replay the point” annuncia, prima di accorgersi della gaffe e restituirmi il quindici”

Eppure ad ascoltarli, la differenza tra i giocatori di challenger e i top-100 non è per nulla tecnica. “Forse che io tiro più piano di Hewitt, Santoro o Schuettler?” – urla Hadad sparecchiando l’ennesimo drittaccio – il fatto è che loro ci riescono per 365 giorni all’anno. Io, bene o male, cinque. Il gap è nella testa. Noi giocatori la chiamiamo consistenza”. Che potremmo spiegarla come la capacità di giocare al proprio meglio, o giù di lì, per tutto il match, un torneo, una stagione. In effetti, a fronte di qualche caso patologico, i talenti non mancano. Suzuki, per esempio, a rete para meglio di Toldo e tocca di fino che sembra Rafter: “Però è fragile e si infortuna spesso – spiega Claudio Pistolesi che lo segue da 6 anni – E quando l’ho preso che era ragazzino, da fondo colpiva solo la ramata. Adesso sa fare anche il chop di dritto e il top di rovescio. Mica bazzecole”.
Però evidentemente gli manca la “consistenza”, se al massimo è arrivato al numero 102 della classifica mondiale.
I challenger sono comunque una tappa obbligata per conquistare questa benedetta “consistenza”. Wilander e Becker che vincono Parigi e Wimbledon a 17 anni sono casi più unici che rari, forse irripetibili. In effetti dal 1983 (anno di introduzione della denominazione “challenger”) sono stati ben 37 i vincitori di un torneo challenger che sono poi riusciti in carriera a chiudere una stagione da top-10. Gli ultimi casi? Rafter, Ferrero e Kuerten. Quest’ultimo poi la vita da challenger la ricorda benissimo. Nel 1996 vagava per il Sud Italia alla ricerca di punti e soldi. Arrivò al punto di domandare ad un arbitro italiano se poteva sfruttare le sue conoscenze in Lotto per fargli avere magliette e pantaloncini gratis. Un anno dopo vinceva il Roland Garros. E nello stesso torneo, Andrei Ilie salutò tutti sconsolato. “E’ il mio ultimo torneo: ho finito i soldi”. Poi ci ha creduto ancora un po’ è adesso è “Hulk” Ilie, le magliette se le strappa a ogni vittoria e il suo conto in banca è miliardario.
Proprio l’aspetto economico è il dramma di molti. Hadad è piuttosto realistico nella sua spiegazione. “Tutti giochiamo a tennis per una ragione: fare soldi. E con i challenger non diventi ricco. La differenza con il tour maggiore non la vedi nell’hotel o nella transportation, ma quando vai a ritirare il prize money”. Attualmente l’attività nei tornei challenger costa mediamente 40.000 euro, coach escluso (chi può permetterselo). “L’anno scorso – spiega Di Mauro- non avrei chiuso in pareggio se non avessi avuto il supporto dei campionati a squadre e della Federazione, che mi ha dato 15.000 euro”. In particolare, molti si rifugiano nella Bundesliga tedesca, dove i club ricoprono d’oro chi porta punti. A meno di non poter sfruttare situazioni particolari. Come Doug Bohaboy, al secondo anno di professionismo, che è riuscito a chiudere il 2001 in pareggio:”Perché mio padre viaggia tanto per lavoro e mi ha ceduto le sue miglia-bonus per volare gratis”. E meglio ancora va a Terachi, figlio del vicepresidente della Ana, importante compagnia aerea e alberghiera. Se poi invece ti chiami Takao Suzuki e sei un idolo in Giappone, hai fatto bingo. Takao ha perfino racchetta e borsa autografata. “Il Giappone è un paese ricco – spiega Takao – e anche se spendo 100.000 dollari l’anno, il guadagno è assicurato, soprattutto se faccio bene nei tornei di casa. Per i giapponesi il più forte del mondo è chi vince a Tokio: ignorano che esistano altri tornei”. E in questo caso arrivano anche dei benefit, talvolta sostanziosi e curiosi al tempo stesso, come quando Suzuki in Giappone ha vinto una Kawasaki. “In effetti – aggiunge Fleishman – è meglio essere 200 al mondo e numero 1 nel proprio paese che numero 80 ATP ma 30 in America”.

Ma in tutto questo contesto l’ATP che fa? Sovvenziona anche i suoi figli meno nobili, li protegge, quantomeno li consola? Oppure se ne disinteressa, troppo impegnata a specchiarsi orgogliosa nei suoi Masters Series? Dice Johanna Langhorne, challenger manager dell’ATP: “E’ fuor di dubbio: i giocatori dei tornei challenger non sono considerati tennisti di seconda categoria. Dopotutto è da qui che passano i campioni che poi faranno impazzire i fans”. Belle parole, ma che stonano con le opinioni dei diretti interessati. L’ATP ragiona come una banca: va dove la portano i soldi, è il leit motiv che si ascolta:”Sono socio ATP dall’anno scorso –dice Di Mauro- e adesso ho qualche straccio di assicurazione. Ma niente a che vedere con quelle dei giocatori più forti. La sensazione è che i soldi vanno a chi ne ha già tanti”. Eppure c’è chi giustifica la situazione. Sentite Hadad:”I top-players non ci considerano? Al loro posto farei lo stesso. Quando sei il numero 20 del mondo e guadagni 5 milioni di dollari l’anno, che t’importa di un israeliano che cerca di sopravvivere a Ho Chi Minh?”. Eppure l’ATP non è rimasta a guardare. A partire dal 1991 i tornei challenger sono cresciuti numericamente (da 94 a 135) e di montepremi (da 5,4 milioni di dollari a 6,3). In alcuni paesi è stato un vero boom, come l’anno scorso in Brasile. E non a caso il ranking di molti brasiliani è notevolmente migliorato. I challenger sono un passaggio fondamentale nella scalata alla classifica mondiale, basta guardare all’esempio spagnolo. E adesso anche a quello italiano. Quest’anno saranno una ventina i challenger organizzati nel nostro paese, a chiaro vantaggio delle nostre giovani speranze. Anche se Di Mauro ammonisce:”Fossi un giovane emergente alternerei i tornei in Italia con quelli all’estero. Se giochi otto tornei di fila sotto casa, ti pare di essere tornato ai circuito satellite”. Serve dunque una programmazione coraggiosa e una certa esperienza. Anche perché a supporto manca quasi sempre un coach, onere spesso insopportabile. “Sarebbe utili avere qualcuno con cui discutere del proprio gioco –dice Hadad- Altrimenti se perdi tre volte al primo turno rischi di sprofondare”. E invece la realtà è fatta di lunghe trasferte solitarie dalle quali è utile uscire prima che faccia capolinea la rassegnazione. Serve soprattutto cattiveria e destrezza in un circuito dove ottieni di più con una parola gentile e una furbata che solo con una parola gentile.
“Spesso – spiega l’indonesiano Suwandi- si affronta l’avversario con troppa accondiscendenza. Soprattutto noi orientali pensiamo troppo al bel gesto e poco al risultato. Gli europei sono più furbi: conoscono mille trucchi per vincere”. Tutti, per l’amor di Dio, nel rispetto delle regole.
A differenza di quanto succede nei tornei Futures, dove lo spirito di sopravvivenza porta perfino a combinare una suddivisione del montepremi. Succede per esempio che i quattro semifinalisti si giochino i match, ma a priori hanno già deciso di dividersi in parti uguali il prize money, qualunque sia il risultato finale. “Nei futures succede –ammette Hadad- nei challenger no. Dopotutto, se non credi in te stesso è meglio smettere subito”. Però non è sempre facile avere fiducia, quando gli anni passano e i risultati non migliorano. Si resta a lottare sperando di indovinare la settimana che ti cambia la vita. Per non finire come Nicolas Kishkewitz, sorpreso negli spogliatoi in una crisi di pianto perché non riusciva ad emergere.”Ma che t’importa, la vita è un’altra” cercavano di consolarlo.
Pura verità. Eric Taino, ad esempio, il diritto di Sampras nemmeno lo sfiora, però sa citare a memoria le battaglie della Guerra di Secessione americana e si sta laureando in storia alla UCLA. E Doug Bohaboy ha scelto il professionismo dopo i 20 anni per finire l’Università a Chicago:”Scienze Politiche” dice orgoglioso.
E poi c’è chi le soddisfazioni extrasportive non le ricerca nella cultura e nello studio, ma in altri ambienti. Se i più forti del mondo sono sempre corteggiati da bellissime pin-up ripiene di push-up, c’è anche il caso di un giocatore italiano che per far colpo sulle hostess del torneo, allungava qualche dollaro a un cameriere perché accorresse al ristorante urlando: “Dottore, mi scusi, ha chiamato il pilota: il suo elicottero si è rotto!”.
Una piccola storia per sentirsi star per un momento, in un circuito dove sono più i giorni che passano senza che vi sia nulla da ricordare che quelli indimenticabili.
Un circuito che somiglia a una giungla, dove spesso l’avversario è cattivo, incazzato e affamato. Per dirla alla Belushi, dove quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. Per quattro soldi, però, e questo ai giocatori non sta bene. Dice Fleishman, 50.000 dollari spesi l’anno scorso senza ritorno alcuno:”Cosa direi al presidente ATP se capitasse da queste parti? Hey, Mr. Miles, could you sponsor me?”:

———————————————————

11 maggio 2007 - Visto l’interesse (da record) che ha riscontrato l’argomento genitori-figli, penso sia interessante proporre un vecchio pezzo sull’argomento. L’autore è forse il più indicato a occuparsi dell’argomento, visto che stiamo parlando di un vero e proprio talent scout, quel Fabio Della Vida che fa il procuratore dell’ IMG, per la quale si occupa di “recruiting”, ovvero identificare nuovi talenti ed aiutarli a crescere. In questo interessante articolo, apparso sul “Tennis Italiano” del luglio 2003, racconta il suo punto di vista sui genitori dei ragazzi-tennisti e racconta un paio di aneddoti molto, ma molto interessanti. Da non perdere.

EDUCAZIONE VINCENTE

Di FABIO DELLA VIDA

Consentitemi di trattare, sia pur brevemente, il problema genitori. Valutare la famiglia è una delle caratteristiche principali per selezionare un giocatore. Se non hai dietro una famiglia che ti aiuta, cioè genitori che capiscono che il figlio ha la possibilità di diventare qualcuno ma nello stesso tempo sono capaci di dargli un’educazione normale, è molto difficile per lui arrivare. Soprattutto, io odio i genitori che vogliono campare sui figli, che li spingono in alto quasi torturandoli a livello psicologico, e talvolta purtroppo anche fisico, per far si che raggiungano una posizione economica che consenta loro (i genitori) di vivere agiatamente.
Il numero di padri e madri che sono ai tornei aumenta considerevolmente e spesso li vedi ogni settimana sul circuito, il che vuol dire che non hanno niente da fare. Questo, personalmente, mi disgusta. Guardate i campioni di oggi e di ieri e ditemi voi se avete mai sentito parlare del padre di Edberg, di Agassi, di McEnroe, della Evert. Molti di questi io non li ho mai visti in vita mia.
Ora voglio farvi un paio di esempi di buoni genitori e di cattivi genitori ma permettetemi per i secondi di omettere il nome.
Circa quattro anni fa ho chiamato il papà di Mario Ancic per farlo firmare con la IMG. Mi ha risposto che era molto felice di parlare con me ad una condizione; che io fossi a Spalato per tre giorni. Andare a Spalato per tre giorni non è certo una tortura, anzi è una vacanza che consiglio a tutti. Però mi chiedevo che volesse Stipe Ancic da me per tre giorni. Comunque, accetto. Arrivo a Spalato ed il primo giorno Stipe noleggia una barca e mi porta a vedere tutte le isole intorno a Spalato (che meraviglia!!!). La sera si va a mangiare in un mitico ristorante e non una parola di lavoro. Il giorno dopo mi porta a vedere le sue attività lavorative, mi illustra ciò che fa lui, ciò che fa sua moglie, gli studi dei figli, mi parla degli amici etc etc ma sul lavoro tabula rasa. Il terzo giorno cominciamo a parlare di lavoro e la prima cosa che mi dice è: “Ti ho voluto far vedere chi è la famiglia Ancic per farti capire che tutto quello che ti chiederò non è per noi ma per dare a Mario la possibilità di diventare un tennista; ma voglio dirti che continuerà a studiare e che se vediamo che non lo farà le cose seriamente lo faremo smettere e lavorare con noi!”. Oggi Mario è nei primi 70 del mondo ed è una grande promessa ma pochi sanno che ha finito il liceo con il massimo dei voti ed ha già dato 4 esami di giurisprudenza con ottimi risultati…con genitori così tutto è più facile…
Un’altra volta vado a Bratislava per Daniela Hantuchova (altra ottima famiglia) e una persona insiste varie volte perchè io veda sua figlia giocare e ne dia un giudizio sincero e spassionato. La decima volta che me lo chiede cedo e gli dico che la prossima volta che sarei andato a Bratislava l’avrei vista perchè l’indomani avevo l’aereo alle 8 da Vienna. “No - mi dice - ti prego guardala domani alle 5 di mattina poi ti porto io a Vienna a prendere l’aereo”. Cedo perchè in fondo sono buono. Alle 4.45 mi passa a prendere e in macchina continua a raccomandarmi la massima sincerità e obiettività. Per farla breve: la ragazza era scarsissima, una bella pippa, per intenderci. Io lo dico con gentili parole al padre, il quale per tutta risposta si mette a inveire contro di me dicendomi che non capivo nulla e mi pianta lì senza portarmi all’aeroporto. Questi sono i genitori talvolta!
La cosa più brutt che esiste, a livello giovanile, è vedere ragazzini già stressati, che mentre giocano guardano con terrore i genitori in tribuna dopo ogni errore. E vedere detti genitori che spesso capiscono il tennis come io capisco la bachicoltura, scuotere la testa ad ogni errore dei figli. Eppure togliere ai bambini la gioia di divertirsi è per me uno dei più grandi crimini che ci siano.

—————————————————————————————–

3 maggio 2007 -Tra i suoi mille meriti, giornalistici e non, Rino Tommasi ha quello di esprimere le sue opinioni (peraltro quasi sempre condivisibili) con sintesi e chiarezza. Nel 1995 la volenterosa Italia di Coppa Davis, con Gaudenzi leader e Furlan valida spalla, ebbe l’onore di affrontare, in casa, gli Stati Uniti di Sampras ed Agassi (nonché di Palmer e Reneberg, che non erano fenomeni ma in quel momento erano al numero 1 del ranking di doppio). Manco a dirlo, un evento dalle potenzialità mediatiche enormi. La FIT di allora, invece, oltre a non promuovere adeguatamente l’evento, scelse di giocarlo a Palermo, sede inadatta non tanto per la città quanto per la limitata capienza dell’impianto. E tutto si risolse in un flop, tecnico ed organizzativo. Per le amare considerazioni di Rino, che scrisse così sul numero 7 di Matchball, anno 1995.

UN’OCCASIONE IRRIPETIBILE

Di RINO TOMMASI

Non so quando ci capiterà ancora di dover ospitare in Italia un incontro di Coppa Davis contro una squadra che allinea i due più forti giocatori del mondo. E’ certo che è stata sprecata una grande, forse irripetibile, occasione per fare dell’incontro un grande evento e per realizzare, insieme ad un grande colpo pubblicitario, anche un grande affare.
Paolo Galgani ha la cattiva abitudine di lanciare ogni tanto dei proclami che iniziano in modo megalomane con questa frase: “Fino a quando sarò io il presidente della Federazione…”
L’ultima di queste frasi storiche, che io consiglierei di scrivere sui muri della FIT, è stata dedicata al problema degli incontri di Coppa Davis. Dice dunque Galgani che l’organizzazione di questi incontri sarà sempre affidata ad un circolo e mai ad un’organizzazione professionistica.
A parte il fatto che la Federazione dovrebbe avere un suo ufficio organizzativo in grado di provvedere, cercando e trovando collaborazione nella sede più opportuna, ne ho visti troppi di incontri di Coppa per non sapere quali e quante lacune si siano riscontrate negli incontri che l’Italia ha disputato in casa.
A Palermo sono stati bravi (ed anche sfortunati per la pioggia, il vento, il freddo e lo sciopero dei giornalisti) ma sono stati venduti 3900 biglietti per ogni giornata, laddove un avvenimento di questa portata avrebbe avuto 15000 spettatori per giornata ed un incasso adeguato.
Poiché non sono soldi suoi, Galgani può continuare a scegliere le sedi di Davis come meglio crede e come i suoi consiglieri gli consentono, ma se fosse l’amministratore o il consigliere delegato di una grande azienda sarebbe già stato licenziato.
Dopo di che non vorrei sentirmi venire addosso una valanga di retorica sui valori dello sport che devono prevalere su quelli commerciali, come se nello sport moderno e professionistico il buon dirigente non avesse il dovere ed il compito di farli convivere.
A Palermo gli unici giornalisti italiani a trovare alloggio all’hotel Villa Igiea siamo stati io e Gianni Clerici, e non certo per meriti speciali o per anzianità. Semplicemente perché abbiamo prenotato nel momento stesso in cui l’Italia ha battuto la Repubblica Ceka a Napoli. Dove, per vostra informazione, qualche consigliere federale mi ha detto: “Per favore, convinci Galgani a non andare a Palermo!”.
Il poverino si faceva delle illusioni sul potere contrattuale della stampa, in particolare sul mio, e quindi non solo si è giocato a Palermo, ma la decisione del consiglio federale è stata, manco a dirlo, unanime.
Non certo per riaprire un altro tipo di polemica, ma rimango del parere che Italia-Stati Uniti si potesse benissimo giocare al Palazzo dello Sport di Roma, o al Forum di Milano; se proprio si voleva giocare sulla terra, sarebbe stato un gioco da ragazzi allestire un campo in terra all’interno dello Stadio Flaminio di Roma, con la possibilità di vendere 18 mila biglietti.

——————————————————————————————


26 aprile 2007
- RICORDARE FA SEMPRE BENE
SE DIVERTE, MEGLIO ANCORA

LE MITICHE “INTERVISTE DEL MAGGIORE”
ARRIGO SACCHI CAPITANO DI DAVIS?

Molti di voi sapranno che il Maggiore Walter Clopton Wingfield è considerato il padre del nostro sport. Fu lui, nel 1873, a brevettare le regole basilari del tennis, che chiamò “Sphairistikè” (dal greco “Il gioco della sfera”): ma non è delle origini del gioco che vogliamo parlarvi. Il Maggiore morì il 18 aprile del 1912, ma molti decenni dopo risorse per fare l’inviato (molto) speciale per “Matchball” (a mio parere la migliore rivista di tennis mai uscita in Italia, le cui pubblicazioni furono bruscamente interrotte nel maggio del 1996).
Wingfield “curava” una rubrica intitolata “Le interviste del Maggiore”, in cui veniva sguinzagliato in giro per il mondo a caccia di scoop. Ed è proprio con una specialissima intervista di Wingfield, che sul blog inauguriamo una rubrica dove daremo spazio a vecchi articoli di tennis (tratti prevalentemente da riviste), che forniscono spunti interessanti, che magari sono ancora attuali, che rinfrescano la memoria (ha ragione Daniele Azzolini, direttore di Matchpoint, quando dice che al tennis italiano manca la memoria), o semplicemente ci fanno divertire. Come pensiamo faccia divertire il pezzo che segue.

Eravamo nel 1994, e l’Italia del calcio, allenata da Arrigo Sacchi, era appena giunta, grazie alle prodezze di Roby Baggio e a parecchia…buona sorte, alla finale dei mondiali (poi persa ai rigori dal Brasile). Era il periodo del “culo di Sacchi”: il vate di Fusignano era accusato di far giocare malissimo la nazionale, ma la fortuna metteva sempre le cose a posto. In quei giorni, alla redazione di Matchball arrivarono certe…indiscrezioni: così, per verificarle, pensarono bene di mandare il Maggiore a farsi quattro chiacchiere con l’Arrigo nazionale. Buona lettura. (tratto da Matchball n.15 – 1994)

Di WALTER CLOPTON WINGFIELD

Quando il direttore mi ha comunicato che dovevo partire per New York sono rimasto perplesso. Ma come, ho obiettato, gli Us Open iniziano a fine agosto, e adesso siamo appena a luglio…”Macchè Us Open, Maggiore – mi ha spiegato – E’ ai mondiali di calcio che deve andare. A intervistare Sacchi: pare che Galgani stia tramando per rubarlo a Matarrese e nominarlo capitano di Coppa Davis al posto di Panatta. Veda di scoprire se c’è qualcosa di vero”.
Io Sacchi lo conosco dai tempi in cui facevo il direttore della SAT al CT Fusignano. E’ un gran testardo, Arrigo – anzi, diciamolo: decisamente un rompiscatole – ma in fondo è un gran bravo ragazzo, affettuoso e di buon cuore. Così quando sono arrivato al ritiro azzurro non ho avuto difficoltà a farmi ricevere. “Maggiore, che piacere sentirla – mi ha risposto al telefono – Salga in camera, la aspetto”. Salgo, busso educatamente. “Avanti!” mi gridano da dentro. Apro la porta, e mi arriva una gomitata in faccia che mi fa saltare il pince-nez.
“Tassotti, ma che fai, è Mister Wingfield – sento urlare Arrigo, mentre crollo per terra – Mi scusi sa, Maggiore, è che stiamo provando lo schema per il fuorigioco…”.
Mi rialzo, aiutato da Benarrivo e Casiraghi, e barcollando mi avvicino al letto dove è sdraiato Sacchi. “Si accomodi”, dice il CT, e io, ancora un po’ scosso dal tackle di Tassotti faccio per sedermi. Ma subito balzo in piedi, folgorato da una fitta al fondoschiena.
“Ahio! Arrigo, ma cosa c’è sotto il lenzuolo?”
“Aghi. Ci dormo sopra per rilassarmi, non ci faccia caso. Piuttosto, Maggiore, qual buon vento?”.
“Senti Richetto, ma è vero che ti vuole Galgani?”.
“In effetti l’avvocato mi ha chiamato dopo la partita con la Nigeria – mi risponde rabbuiandosi un po’ – “Arrigo bello”, mi ha detto “Cò brocchi che c’abbiamo al tennis, io l’ho sempre detto, se non ci aiuta un po’ la fortuna ‘un si vince una partita che è una. Ora, te tu c’hai un culo che Panatta in confronto è Lola Falana. Se vieni da noi come minimo di vince la Coppa Davis e Pistolesi va in finale a Wimbledon.” E io che pensavo di essere apprezzato come tecnico…”
“Scusa, ma Galgani non ha appena preso Smid?…”
“Scelta da dilettante. Se proprio voleva un tecnico straniero doveva assumere Milutinovic, gliel’avevo detto”.
“E perché mai?”
“In tre mondiali ha fatto passare un turno a Costarica, Usa e Messico. Ad allenare i brocchi è un fenomeno”.
“Ma il tennis non è il calcio…”
“Sciocchezze. I concetti base sono sempre quelli”.
“Ad esempio?”
“Il possesso di palla. Mai restituirla al raccattapalle. Voglio vedere poi come fa Ivanisevic a tirare gli ace”.
“Geniale…E poi?”
“Il pressing. Perché fermarsi a metà campo quando si attacca, dico io? Una volèe colpita nel campo avversario è molto più efficace”.
“Ma non si può!”
“Volere è potere, caro Maggiore”.
“Sono senza parole. Già che ci sei: non è che avresti anche una soluzione per il nostro doppio di Davis? Scommetto che tu Brandi e Mordegan li convocheresti…”
“Per carità! – risponde inorridito – Uno ha il codino, l’altro è di Vicenza…Mi ricordano troppo Baggio. Guardi, io farei giocare Furlan e Pistolesi, due ragazzi a posto, disciplinati. E che in campo corrono moltissimo”.
“Furlan e Pistolesi in doppio???!! Arrigo, ma ti senti bene?”
“Non sono gli uomini che contano, Maggiore, ma gli schemi. Io imposterei un bel doppio a zona, con i due uomini sempre in linea pronti a scalare sui lob. E poi, se Berti gioca titolare in nazionale, Pistolesi può tranquillamente fare il doppio in Coppa Davis, non le pare?”
“Ineccepibile. E Canè?”
“Basta che non sia diventato buddista anche lui…”
“Tu e Panatta sareste incompatibili, immagino…”
“Niente affatto. Adriano lo vedrei bene come preparatore…”
“Scusa Arrigo, ma Panatta in palestra non ce lo vedo proprio”
“E chi ha parlato di palestra? Io intendevo in cucina: come prepara l’amatriciana lui…Però adesso la devo lasciare, Maggiore, è rimasto poco tempo e devo provare ancora gli schemi della colazione con i ragazzi”
“Va bene, Arrigo, ma toglimi l’ultima curiosità: con Berlusconi hai mai giocato a tennis?”
“Si, tre anni fa ad Arcore. E’ stato un match durissimo”
“Chi ha vinto?”
“Io, 7-6 al terzo. Pensi che sul matchball ho colpito il net…”
“Che culo…”
“Maggiore, ci si mette anche lei?”

Scrivi un commento