L’importanza di chiamarsi Top Ten

 
11 Agosto 2009 Articolo di Roberto Commentucci
Author mug

Flavia Pennetta è molto vicina ad essere la prima giocatrice italiana di sempre a fare il suo ingresso nella Top 10, risultato che manca al nostro tennis  da oltre 30 anni. Obiettivo simbolico o grande traguardo?

Le recenti imprese della magnifica Flavia Pennetta, mai come stavolta vicina ad entrare fra le prime 10 del mondo, hanno immediatamente riacceso il dibattito fra gli appassionati e gli addetti ai lavori: cosa significherebbe, per il nostro tennis, piazzare una giocatrice, sia pure per sole 2-3 settimane, fra le prime 10 del ranking?

Molti osservatori fanno osservare che il traguardo avrebbe un valore soprattutto simbolico: per il nostro movimento farebbe poca differenza avere una n. 10 per poche settimane o avere una n. 11 con una manciata di punti Wta in meno. I valori, in fondo, sono quelli. Infine, si fa rilevare, fra una episodica comparsata fra le prime 10, e una semifinale di Slam, non c’è dubbio che sarebbe ben più importante il secondo obiettivo.

Ebbene, non è così. O almeno, non solo, dal momento che molto probabilmente i due obiettivi possono essere raggiunti solo simultaneamente: è difficile entrare nelle prime 10 senza fare semi in uno Slam. Tuttavia, a parere di chi scrive, una Pennetta top10, semi di Slam o no, potrebbe costituire un epocale punto di svolta per tutto il movimento, come si cercherà di dimostrare in questo pezzo.

Gli effetti di 30 anni di disfatte: un ambiente depresso e poco ambizioso.

Parliamoci chiaro. Per un paese come l’Italia, che ha 60 milioni di abitanti, è la settima potenza economica del pianeta e vanta una grandissima tradizione di successi sportivi in tantissime discipline, passare la bellezza di 31 anni senza esprimere un top10 nel tennis (l’ultimo fu Corrado Barazzutti nel 1978) è una debàcle di proporzioni storiche.

30 anni, signori. Nello sport, un tempo lunghissimo. Una generazione e mezza, una autentica era geologica. Significa che la stragrande maggioranza degli attuali addetti ai lavori (giocatori, coach, preparatori atletici, maestri, dirigenti) non ha alcun ricordo concreto di una vittoria davvero di vertice, della costruzione di un autentico campione italiano.

E allora fioriscono i luoghi comuni. Gli italiani non sono fatti per il tennis, gli italiani non hanno grinta, gli italiani sono fragili psicologicamente, eccetera. In realtà, il motivo è un altro. Gli italiani perdono perché vivono immersi in un ambiente che da un tempo lunghissimo non è più abituato a vincere, e che perciò ormai non ha la più pallida idea di come si faccia, a vincere.

Da noi non ci si pongono mai obiettivi realmente ambiziosi: fin dai tornei giovanili, i ragazzini sono tutti stressati dall’ansia del risultato immediato: la Coppa PIA, la Coppa delle Regioni, l’Open di Canicattì… E si investe poco, invece, sul vero obiettivo, per quell‘età: un equilibrato lavoro a lungo termine di costruzione tecnica, e fisica.

Non a caso, come scriveva Riccardo Piatti lo scorso anno, da noi i coach, su ragazzi di 17-18 anni, devono ancora effettuare dei “recuperi di tecnica” per colmare delle lacune in colpi fondamentali, anziché lavorare su tattica e atteggiamento. L’eccessiva attenzione al risultato, e l’attività troppo terracentrica, favoriscono l’emergere di giocatorini prudenti, con uno stile di gioco anacronisticamente basato sulla regolarità, spesso con un servizio insufficiente, e con gravi lacune atletiche. Giocatorini che poi a 17-18 anni si trovano a non avere un colpo vincente e o smettono, o devono effettuare una difficile riconversione per costruirsi un gioco più aggressivo. Il risultato è che al professionismo ne arrivano pochi: e quelli che arrivano, ci arrivano più tardi degli altri, e arrivano meno lontano.

Anche fra i professionisti, la mancanza di ambizione, inevitabilmente, operando per schemi mentali stratificati e consolidati, pervade tutto l’ambiente: si considera un enorme traguardo l’arrivare nei 100, ciò che per gli altri è un punto di partenza. E questo perché, dopo tanti anni di batoste, a livello conscio o inconscio, fare semi in uno Slam, arrivare nei primi 10, sono obiettivi che un po’ tutti, compresi giocatori e allenatori, ritengono irraggiungibili. Alla fine, tanto, in semifinale a Parigi, o nei primi 10, ci arriveranno gli altri, sembra dire una vocina all’interno dell’animo di ciascun appassionato, di ciascun addetto ai lavori.

I nostri tennisti: esploratori senza bussola.

Così, quando uno dei nostri centra qualche bel risultato, ecco che subito la stampa specializzata (che da anni, come tutti, spera che anche il tennis riesca finalmente a riguadagnare un po’ di popolarità), dà il là ad una serie di celebrazioni, spesso eccessive, con paragoni ad effetto (Bolelli, il nostro Federer…); subito i tifosi iniziano a far volare la fantasia, per troppo tempo repressa, e allora la pressione per il malcapitato protagonista dell’impresa sale a livelli insostenibili, per gente che sulle prime pagine dei giornali non ci sta mai, come i nostri tennisti. Ne consegue che se uno dei nostri giocatori supera due o tre turni in un torneo dello Slam, o centra una serie di vittorie nei tornei, finisce per provare le stesse sensazioni che devono aver provato i marinai di Cristoforo Colombo, perduti nel Mare Oceano.

Sembra loro di essersi avventurati in una landa inesplorata, e presto la mente si popola di angosce e timori. Perché lì, in quei terreni di caccia, non c’è mai arrivato nessuno, dei nostri, per poter raccontare cosa significa e come si fa. Si arriva alla partita decisiva (il quarto di finale negli Slam, il match che ti porterebbe fra i top 10) e ci si sente come dei mendicanti ad un banchetto, con la sgradevole sensazione di essere fuori posto: mamma mia, quando mi ricapita più un’occasione simile?

Ed è la fine, il braccio si blocca, si sbagliano le palle più semplici. Sono ancora una volta gli altri che vanno avanti: i francesi, gli spagnoli, i russi, i ceki, gli argentini.

Quelli dei paesi abituati a vincere, anche se magari, a volte, non sono poi migliori dei nostri.

Ma loro, anche se sono giovanissimi e inesperti, in realtà procedono su una strada conosciuta: la lanterna ben alta in una mano, la mappa dettagliata e precisa nell’altra, i giocatori che provengono dalle grandi scuole tennistiche, nella loro scalata al vertice, possono distinguere sul terreno, nitide e rassicuranti, le orme lasciate dai loro connazionali, che su quel cammino li hanno preceduti. E hanno raccontato loro come si fa. Così, tanto per non fare nomi, Emilio Sanchez lo ha raccontato a Bruguera, e Bruguera lo ha raccontato a Moya, e Moya lo ha raccontato a Nadal.

Conclusioni.

Insomma, per vincere, bisogna stare a fianco di chi ha già vinto, di chi si è abituato a vincere.

Ai nostri giovani, invece, chi lo può ormai spiegare, come si fa? Non certo chi ha vinto 30 anni fa, quando si giocava un altro sport.

E quindi, avere Flavia Pennetta fra le prime 10, anche per una sola settimana, sarebbe un grandissimo successo, un evento di portata epocale, per il nostro movimento. Perché avremmo finalmente un esempio da seguire, un modello da imitare, un paradigma da replicare.

Avremmo la testimonianza, la prova provata, che anche un tennista “normale” come Flavia, senza essere un predestinato, se si programma bene, se fa le scelte giuste, se lavora nel modo corretto, con le persone giuste, se crede con tutto il cuore in ciò che fa, può arrivare in cima alla Montagna Proibita.

E allora, gli azzurri che verranno dopo Flavia, nei momenti importanti dei loro match, quando il cuore batte a mille, la pallina scotta e il braccio sembra di ghisa, non avranno più, in qualche remoto angolo del cervello, quella vocina maligna: “mamma mia, sto per fare una cosa che nessun italiano ha mai fatto; ma non posso farcela, l‘altro è più forte di me…“.

Al contrario, essi potranno pensare, liberi da ogni fardello: “se ce l’ha fatta Flavia, ce la posso fare anch’io. Coraggio!“.

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17 Commenti a “L’importanza di chiamarsi Top Ten”

  1. Karl scrive:

    Non sottovaluterei che a Flavia Moya e Nadal hanno potuto suggerire molto. In sostanza i casi della vita hanno fatto si che anche Flavia sia stata immersa in ambienti di vincenti.

  2. giastp scrive:

    Bellissimo articolo! Concordo su tutto, l’aspetto mentale nel tennis (ma vale in ogni ambito della vita) è determinante per comprendere chi sei, in che mondo ti muovi e fin dove lo puoi esplorare. Pensieri limitanti creano atleti (e persone) limitate che non raggiungeranno mai la meta perchè credono di non riuscire. Purtroppo non è solo colpa dei campioni che non abbiamo e che non trasmettono questi concetti ma anche di una certa diffusa cultura italiana che cresce i nostri ragazzi non certo con la mentalità “impossible is nothing” ma “accontentati di ciò che viene” e questo è un guaio perchè ciò che si impara da ragazzino ti rimane impresso dentro e cancellarlo diventa problematico. Comunque speriamo che Flavia dia l’esempio e che possa infondere ottimismo e coraggio di osare, di lavorare, di puntare sempre più in alto. Speriamo che i nostri attuali talenti inespressi possano trarne subito un esempio da seguire ed imitare!! Forza!!

  3. John Doe scrive:

    Ciao Roberto, condivido il tuo pensiero sul tennis italiano, e anch’io sono convinto che se Flavia Pennetta entrasse tra le 10 sarebbe un grandissimo successo, non è assolutamente vero che essere numero 11 è lo stesso. Ieri, dopo la bellissima vittoria a L.A., tutti i tg hanno parlato di tennis ( cosa che non accadeva da anni ), immaginiamoci cosa accadrebbe se Flavia entrasse nella top 10: se ne parlerebbe per giorni, e le esagerazioni tipiche dei nostri giornalisti sportivi questa volta sarebbero una cosa molto positiva visto che il tennis praticamente da vent’anni almeno è stato completamente dimenticato dai media italiani.
    Certo sarebbe meglio se finalmente nascesse anche in Italia un supercampione, ma per quello ci si può affidare solo alla fortuna, non c’entrano le federazioni.

  4. Avec Double Cordage scrive:

    analisi perfetta, ma il punto di partenza a mio parere non è completamente veritiero. La differenza tra un top ten ATP e una top ten WTA è troppo grande, certo bisogna anche accontentarsi ma probabilmente un paio di settimane di top ten WTA ai fini di fungere come esempio non valgono molto di più di una comparasata tra i primi 25 ATP.

    Però l’analisi fatta è perfetta! Io penso che la conclusione da trarre dal discorso, specialmente in questo caso (Pennetta, a differenza di Schiavone), è quella che per fare le cose come si deve bisogna andarsene all’estero in posti, accademie, scuole, etc. dove la mentalità vincente ha lasciato traccie tangibili nell’ambinete, nelle persone, nei maestri.

    Quindi la parole d’ordine è “giovani andate all’estero se potete”, non dico tutti, ma almeno qualcuno mentre ora come ora sono pochissimi che lo fanno… sinceramente torniamo sempre al solito discorso: la maggior parte del movimento tennistico (agonistico giovanile) italiano è costituita da figli provenienti da ceti benestanti, difficile che un ragazzo proveniente da una famiglia dove ci sia un impresa di famiglia (che gli da la possibilità di lavorare in famiglia alla fine dell’avventura del tennis) segua le orme dei vari top ten (Sharapova, Agassi, Federer, etc.) allontanandosi per anni dalla famiglia e dal suo circolo dove viene coccolato. Un ragazzo proveniente da un ceto medio basso cresciuto sui campi pubblici e non in un circolo invece sarebbe molto più incentivato a farlo, ma da noi non ci sono i campi pubblici, o meglio ci sarebbero anche, ed anche vuoti, ma non sono adibiti al tennis, mentre basterebbe molto poco per farlo, un salto in ferramenta per comprare una fune una rete e dare sette pennellate bianche al cemento, ci vorrebbe qualche esempio però e soprattutto un vero campione per far sognare i ragazzini.

    Ma forse a sognare siamo solo noi malati, forse non basterebbe nemmeno un Tomba-Rossi per staccare i ragazzini di oggi dai videogiochi etc.
    Comunque per dare un po’ di aqua al mulino di Roberto e al suo ragionamento, l’altro giorno di sfuggita ho visto il TG3 di mezzo giorno e c’era un bel servizio con filmato della vittoria di Flavia a Los Angeles… non sembrava vero, tennis al TG!

  5. Dino scrive:

    Dal Corriere della Sera…”con quella frase che l’amatissimo papà Oronzo pro­nunciò dieci anni fa e che anco­ra le ronza, molesta, nelle orec­chie: «Chissà se la mia bambi­na arriverà nelle prime 200…».
    Son d’accordo come scritto nell’articolo…speriamo che da settimana prossima un altro papà potrà dire “speriamo che la mia bambina arriverà tra le prime 10 come Flavia…”
    Solo con grandi ambizioni si possono ottenere grandi risultati…bisogna solo mettere più in alto possibile l’asticella…mal che vada ci si finisce poco sotto….

  6. Mirko scrive:

    concordo su tutto… eccetto per l’italia settima potenza mondiale.

  7. Renée scrive:

    Robero dice una cosa giustissima cui non avevo pensato. Nel tennis non basta l’exploit, la gara della vita.
    Nel nostro magnifico sport per arrivare in alto bisogna vincere tante volte di seguito, e dunque hisongna imparare anche a gestire i successi, a comportarsi nelle vittorie. E questo te lo può tramsemttere solo chi ha fatto pratica nel settore…

    Mi permetto di aggiungere una considerazione.
    Indubbiamente le nostre ragazze sono, da almeno vent’anni, meno “provincialii” nelle scelte di carriera rispetto agli uomini.
    Ed hanno anche più successo (con la doverrosa precisazione che - come autorevolmente notato - il circuito maschile sia molto più duro e difficile).

    Tuttavia sono i maschi italiani che negli anni 80 potevano giocare nei campetti con esempi di campioni italiani di successo.
    Perchè il testimone non è, di fatto, mai passato di mano?

    Il fatto è che i nostri praticamente 3/4 campioni di tennis che hanno raggiunto certi traguardi sono tutti (ma proprio tutti) ancorati ad una idea di tennis appunto superata.
    Insomma anche i grandi campioni di tennis non trasmettono molta capacità di crederci.
    Prendiamo Pietrangeli: uno che ha giocato la semifinale a Wimblendon, rischiando di vincerla contro Laver.
    Ma che cosa trasmette ai giovani aspiranti campioni? Che la Davis viene prima di tutto (!?) che bisogna giocare i campionati italiani, che bisogna rimanere provinciali insomma…
    Panatta che ha vinto a Parigi negli anni di Borg…
    Barazzutti l’ultimo italiano a giocare il Master.
    Li sentite mai raccontare di quelle esperienze in modo trascinante?

    Voglio dire: sappiamo tutti quanto può esaltare un ragazzino il racconto di qualcuno che ha vissuto i Championship così da vicino, dall’interno?
    E invece io non ho mai sentito il nostro Nicola farci riferimento, nemmeno in via indiretta.

    Se non ti trasmettono la voglia di partecipare a certi eventi esclusivi quelli che l’hanno fatto con un certo successo, come potrà venirne voglia agli altri?

    A cambiare questo trend non so se basterà che la pur meritevole Pennetta diventi una top ten.

    Certo che sarebbe un bel risultato, soprattutto per lei.

  8. gisva scrive:

    Complimenti per la disamina.

    Visto che i tre migliori azzurri attuali sono sotto l’ala di Piatti, l’avere vicino Ljubicic sarà senz’altro utile.

  9. PIPPO scrive:

    Intanto speriamo che questo avvenga…..ma non credo che questo sia un punto positivo per il tennis nostrano.Intanto perchè Flavia è una donna e già sento che non ha la stessa valenza di un maschio: la verità è che l’Italia è provinciale e non si capisce che se uno nasce femmina non può competere in ATP…o no? Certo io preferirei avere un giovane ( di qualunque sesso) abbia una classifica da top per un certo periodo e non per una settimana. Questo significherebbe che un nostro tennista è arrivato a quel dato livello non per buona fortuna, buona programmazione, momento storico favorevole per infortuni e problemi degli avversari.Insomma il numero dieci vale a seconda di come lo si conquista, in quale momento epocale ecc.Certo oggi Flavia può e deve approfittare della opportunità, ma pensiamo anche che mancano tanti nomi dalle classifiche: non c’è tanto in giro….però sarei comunque molto felice se questo avvenisse agli U.S. perchè significherebbe che centrerebbe l’obiettivo con una prestazioni assolutamente importante( SEMIFINALE A N.Y:) e scusate se voglio poco

  10. Ubaldo Scanagatta scrive:

    @john doe: sottoscrivo quanto dici ” Ieri, dopo la bellissima vittoria a L.A., tutti i tg hanno parlato di tennis ( cosa che non accadeva da anni )”.
    I processi di comunicazione ormai funzionano così. In teoria aveva ragione Tommasi quando diceva “essere n.10 o n.11 non ci cambia granchè”, ma in pratica a volte basta dare uno spunto al tuo caporedattore che di tennis non sa nulla _ del tipo : la pennetta ha vinto il torneo più importante della storia del tennis italiano (me l’hanno copiato tutti quelli che non si erano premurati di far la ricerca nel 42 tornei vinti in precedenza…)i…oppure del tipo: nessun italiano è stato topten dal dicembre ‘78, Barazzutti _ per conquistare spazio e titoli sui giornali e sui telegiornali.
    Quindi, all’atto pratico, invece cambia eccome. Essere n.10 (magari come è stato tra gli uomini il francese Tulasne e non a lungo: ma ancora glielo ricordano e ogni volta che lo citano, alla tv francese, dicono l’ex top-ten…mentre non direbbero tutte le volte l’ex n.11….e poi dicendo top-ten non vuol dire necessariamente n.10, no?) consente di sviluppare argomenti inerenti al tennis, di sviluppare interviste (se Flavia lo diventerà vedrete…), di stimolare interventi di sostegno degli sponsor (Sergio Tacchini se ci sei batti un colpo!), di interessare al personaggio top-ten _”Che soddisfazione sarebbe passare alla storia come la prima tennista italiana capace di tanto” ha detto comprensibilmente Flavia _ anche un sacco di gente che solitamente al tennis si disinteressa. Inoltre la bellezza, la simpatia, le storie personali non sempre felici di Flavia (peraltro ben distinte, da quella di Carlos Moya a quella di Federico Luzzi, a quella di Potito Starace) aiutano a destare intorno a lei, e di riflesso al tennis, curiosità mediatica e non. In conclusione, premesso che leggo qui a volte commenti che non condivido (qualcuno considera la Petrova una…pippa, ma è stata n.3 del mondo!, altri adesso danno per finita la Ivanovic che è ancora giovanissima e oltre ad aver già vinto uno Slam è stata anche finalista in altri due…un po’ preesto no?), io spero proprio che Flavia ce la faccia a centrare il sospirato obiettivo. E ho titolato il mio articolo su ubitennis “tre tornei decisivi”, perchè a mio avviso è soprattutto fra Cincinnati, Toronto e New Haven _ prima dell’US open dove scade la sua cambiale dei quarti raggiunti un anno fa _ che Flavia potrebbe farcela. E sarebbe così importante farcela perchè ogni posizione scalata prima di New Haven, potrebbe consentirle di avere un numero di testa di serie più favorevole e quindi un cammino più facilitato (o meglio, forse meno difficile) all’US open. Ai danni delle dirette concorrenti. Ciò ho voluto spiegare perchè oggi unì’addetta ai lavori, per solito assai perspicace, mi ha detto che non capiva bene quel titolo sui tre tornei decisivi. E’ evidente che non mi ero spiegato bene. Ora spero di averlo fatto.

  11. Fabio scrive:

    Non penso proprio che la presenza di un giocatore nei top 10 innescherebbe un esempio da imitare così come viene presentato nell’articolo di Roberto.
    Abbiamo avuto due giocatori, da quando il nostro è diventato un sport professionistico, nei top 10 quasi contemporaneamente (1976 e 1978) e non mi pare proprio che abbiano fatto da traino per la generazione successiva.
    La verità è che non abbiamo mai avuto una tradizione vincente nel tennis.
    E il successo di Panatta e Barazzutti è lo stesso, fatte le debite proporzioni, che sta avendo adesso la Svizzera di Federer e Wawrinka, quella che ha avuto la Germania di Becker e la Graf o la Svezia di Borg.

  12. Giovanni da Roussillon scrive:

    Lo spirito trasparente dai tuoi articoli è sempre possibilista e costruttivo. Sostieni tesi interessanti, le dimostri con buona didattica, e ci trasmetti conoscenze tecniche preziose (ne disponi proprio da… vendere. Forza Roberto!).
    Mi pare però che, in questo caso, confrontare angustiati il proprio orto con quello del vicino sia un pochetto sintomatico di arretratezza e conduca fatalmente all’implosione temuta. I cofattori di campioni del tennis saranno miliardi, tra i quali le strutture, organizzazioni e movimenti prossimi agli atleti in età giovanissima e probabilmente in seguito (salvo venire vissute come un peso). Flavia Pennetta, che prediligo tra le tenniste, dà un esempio tangibile. Ciò che le serve e non trova sull’uscio se lo va a cercare un po’ più lontano. Se i tennisti, come tutti gli esseri umani del resto, si aprissero oltre il giardinetto d’origine, il guaio non sarebbe tanto acuto, anzi, sparirebbe. La necessità di portare un vessillo lascerebbe spazio all’ambizione di eccellere come individui del mondo, per il godimento di tutti, conterranei e non.
    L’auspicio è che donna Flavia continui a “correre nel vento” come sta appunto correndo; che il Kasakho si alleni nelle Langhe Piemontesi (pure ciò già avviene!) e si misuri proficuamente dove meglio gli parrà in futuro; Roger Federer giochi il suo tennis del fuoriclasse divenuto adulto per la gioia di chi sarà tra non molto a Genova; Richard Gasquet vinca un masters asiatico in autunno; Michele Youzhny faccia bene all’US Open oppure, se gli torna gradito, a Dnepropetrovsk; e, magari, che i giornalisti di un Paese dimentichino un attimo almeno di essere cittadini di quel solo Paese. In questa prospettiva/atmosfera, forse anche buoni tennisti come Bolelli, Seppi e Fognini raggiungerebbero i campi con meno gravami (sono poi loro a portarli?), coglierebbero risultati consistenti, divertendosi e divertendoci maggiormente. Insomma: meno dramma ed ansie, e più piacere per l’esistente ad ogni latitudine.
    In vena di relativizzare, ti invito a ritenere che un posto tra i migliori dieci, cento o mille del pianeta in qualsivoglia ambito è di per sé successo raggiunto da pochi pochi. Stante che alle spalle dell’ ‘Uno’ vi è l’abisso (dal ‘due’, parimenti dal ‘mille’), è la Bellezza a felicizzarci, a farci volare ben sopra le classifiche. Flavia Pennetta è sull’onda della bellezza, dove le bandiere delle parrocchie curate da papi e veline non saranno mai. Apprezziamola dunque, com è.

    Con un augurio vivo alla magnifica, un grazie e un saluto amichevole a te, caro Roberto.

  13. TCC'75 scrive:

    Prendo atto che Commentucci si sta schiacciando sempre più sulle posizioni della Fit, di Baccini e di SuperTennis.
    Se i tennisti italiani non vincono mai è colpa del pessimismo dei commentatori? Allora di chi è la colpa se tutta la nostra squadra di Davis si è iscritta a San Marino mentre tutto il tennis che conta sta giocando sul cemento americano?
    Che Flavia sia 12 o 8 non cambia nulla: ci saranno sempre 10 giocatrici capaci di batterla in una qualunque delle settimane dell’anno. Questo non significa che i successi della Pennetta siano inutili o di scarso valore, però bisogna anche tener conto che il tennis femminile sta attraversando un periodo di magra. La Safina numero 1 del mondo è un insulto, Kim Clijesters al rientro è già capace di battere giocatrici toste senza perdere un set, ecc ecc.
    Infine ho una domanda per Commentucci: cosa fa più male al tennis italiano il fatto che non abbiamo un/a giocatore/trice capace di andare fino in fondo in tornei importanti o giornalisti che esaltano vittorie di Pirro?

  14. smeraldo scrive:

    Flavia……devi battere venere o adesso o mai più…e poi proviamo uno slam

  15. Roberto Commentucci scrive:

    Caro tc75. a me pare di aver scritto cose molto diverse da quelle apparse sul sito Fit: là Baccini parla di italia femminile come di una superpotenza globale, mentre io ho scritto che 30 anni senza top 10 per il nostro paese sono una debàcle di proporzioni storiche…

    E poi io non ho parlato di colpe della stampa, ma ho scritto che 30 anni senza top10 fanno sì che appena un italiano si avvicina alla meta, stampa e tifosi inevitabilmente, fisiologicamente gli mettono una gran pressione addosso, data la fame atavica di vittorie… Ma ovviamente la stampa non ha colpe specifiche se siamo scarsi da trent’anni.

    Infine, non si può non rilevare che Flavia quando è andata via dall’Italia per allenarsi con Urpi a Barcellona, era a malapena nelle prime 40 del mondo.

    Evidentemente il nostro ambiente non è favorevole alla crescita tecnica dei giocatori, e su questo dovrebbe riflettere la nostra federazione.

  16. Luca scrive:

    Grazie Roberto, articolo da Top 10.
    Condivido ogni tua parola compresa la risposta al solito abbonato alla polemica gratuita senza capo ne coda, a cui rispondi da gran signore.

    Purtroppo col lume della ragione ci si nasce.
    Per cui affermare che essere 8 o 12 conta ben poco in quanto ci saranno sempre 10 che ti battono, è ragionamento off-topic rispetto all’articolo dove si parli di cose semplici, normali che purtroppo pare non siano il pane quotidiano di tanti pessimisti, del tutto o nulla.

    Essere nel giro anche solo dei primi 15 significa giocare almeno con la fiducia di superare i primi turni anche nei tornei importanti.

    Centrare la Top 10 è ancora un passo in avanti, in quanto piaccia o no questo traquardo a livello internzionale ha un suo peso foss’anche solo d’immagine, essere 11 e come uno che arrivato alla maturità non si presenta all’esame, nessuno dirà che è diplomato pur avendo superato tutte le classi.
    Piacia o no esiste l’elenco ufficiale delle Top 10, e se non vieni iscritto in quel registro pubblico, sei semplicemente un’escluso, non esiste il registro ufficiale dei “top 11″.

  17. Andros scrive:

    Mi associo ai complimenti per la Pennetta ed a tutti i commenti positivi su di lei sia qui che su altri media. E’ stata ed è bravissima.

    Non per essere per forza polemico ma ritengo che Flavia dimostrerà veramente di essere maturata (e con lei la Vinci) quando metteranno da parte le loro vicende personali per rigiocare insieme il doppio che è potenzialmente sicuramente il più forte doppio italiano e probabilmente uno dei più forti al mondo.

    Vi siete mai chiesti perchè due ragazze (Vici e Pennetta) così forti, della stessa età, delle stesse origini, che prima giocavano spesso il doppio insieme ora non lo giocano da molto tempo?

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