Moggi story: la vera storia di Lucky Luciano

Nemmeno il calcio dell’asino gli hanno risparmiato. Non appena è esploso lo scandalo che ha scoperchiato la pentola degli imbrogli, Franco Baldini, già manager della Roma e per qualche giorno candidato a prenderne il posto nella disastrata Juventus, ha calato il carico da undici: “La verità è che Luciano Moggi di pallone nemmeno se ne intendeva”. Beh, cominciamo col dire che questa è una bugia, forse figlia di un desiderio collettivo di rimozione.

Perché invece Moggi Luciano da Monticiano, provincia di Siena, classe 1937, è stato e resta uno dei più grandi esperti di cose calcistiche nella storia della Repubblica fondata sul gol. E non c’è malizia nella considerazione: davvero, il personaggio aveva una competenza rara. “Vedeva giocare un ragazzino su un campetto di periferia e ne intuiva subito il talento potenziale — conferma Giorgio Mariani, ex attaccante di Fiorentina, Napoli e Inter a cavallo degli anni Sessanta e Settanta —. Se non si parte da qui, diventa difficile capire tutto il resto”. E allora partiamo da qui. Perché Moggi non è Craxi, come pure con audace provocazione ha osato affermare un raffinato intellettuale come Giampiero Mughini.

Ma nemmeno è un Ricucci qualsiasi: l’ex odontotecnico si era trasformato in finanziere all’improvviso, sbucando dal nulla. Invece l’ex ragazzo di Monticiano non è un marziano, non è un extraterrestre venuto a sconvolgere i pacifici equilibri di un pianeta a lui estraneo. Nossignore: Luciano Moggi ‘è’ il calcio italiano. Con i suoi pochissimi pregi e con i suoi enormi difetti. Se processo degenerativo c’è stato, ha riguardato tutto e tutti, a prescindere dalle responsabilità individuali che la giustizia ordinaria e sportiva provvederanno ad individuare (a a punire, speriamo, con squalifiche, revoca di scudetti e retrocessioni esemplari). Se ancora tre mesi fa Berlusconi lo voleva al Milan, se appena poche settimane fa c’era chi lo candidava al ruolo di capo della spedizione azzurra ai mondiali di Germania, insomma, piantiamola di gridare al mostro. Anche perché di Moggi Luciano da Monticiano tanto si sapeva, persino prima delle intercettazioni telefoniche. In sintesi: l’uomo non ha mai amato il riserbo, non è mai stato un fan della sobrietà.

LE ORIGINI.
“Alla fine, a fregarlo è stato il delirio di onnipotenza. Una volta ci siamo incontrati per caso e io gli ho detto scherzando: tieniteli buoni, i tuoi padroni alla Juve, dagli Agnelli in giù. Lui mi ha guardato e ha risposto: ma ancora non hai capito che uno come me non ha padroni?” Carlo Petrini è un conterraneo di Luciano Moggi. Stesse radici, in provincia di Siena. Stesso paesino, Monticiano. Stessa passione: il calcio. Ma il destino li ha separati. Petrini è stato un buon calciatore, ha militato nel Milan, nel Genoa, nella Roma. Poi, nel 1980, venne coinvolto nello scandalo delle scommesse. Gli appiopparono tre anni di squalifica. La vita non gli ha risparmiato altri guai e i guai gli hanno messo la penna in mano. Petrini ha scritto molti libri, sul pallone taroccato (l’ultimo, «Le corna del diavolo», è una controstoria del Milan berlusconiano). Vendite buone, attenzione zero.

“Ho sempre raccontato le verità scomode — dice l’ex centravanti —. Mi hanno risposto con l’indifferenza. Nemmeno mi querelavano: silenzio e basta. Adesso vengono le tv di mezzo mondo a cercarmi: merito di Moggi, evidentemente. Comunque, in paese nessuno avrebbe osato immaginare, per Luciano, una carriera così folgorante”. Lo dicono anche le vecchine del posto.

Il Moggi adolescente non aveva troppo entusiasmo per i libri di scuola. Sui banchi non brillava. Ipotizzare che in un futuro non remoto avrebbe dato del tu a ministri e a imprenditori di grido, trattandoli da pari a pari, anzi, a volte persino dall’alto in basso, insomma, era francamente improponibile. Ma Luciano aveva un asso nella manica: capiva di calcio come pochi. Se ne era accorto quando, in compagnia di un amico di Grosseto, andava a vedere le partite della serie C o della serie D. Quel tal mediano, da lui subito ben valutato, un anno dopo faceva faville in serie A. Nel calcio remoto degli anni Sessanta, poverissimo rispetto alle faraoniche dimensioni attuali, la competenza era un valore premiante. Non esistevano i procuratori, la Gea poteva al massimo essere una marca di candeggina. Erano tempi in cui i club più prestigiosi arruolavano schiere di ‘osservatori’, come si chiamavano allora: gente che riempiva i weekend vagando per le periferie. Gli osservatori compilavano schede su questo o quel giovane calciatore: le loro relazioni indirizzavano le mosse di mercato della Juve, dell’Inter, del Milan, eccetera. Ecco, l’Impero Moggiano nasce così.

Nasce sfacchinando alla stazione di Civitavecchia, dove le Ferrovie dello Stato avevano assunto il giovane Luciano. Nasce tra viaggi avventurosi di qua e di là, per controllare da vicino il talento di un centravanti o la robustezza di uno stopper. Che coppia con PrevidiNon che Moggi abbia inventato il ‘mestiere’, intendiamoci. Era uno dei tanti: con lui, per intuito e destrezza, si distingueva Nardino Previdi. Emiliano, a tempo pieno dedito a transazioni commerciali nel mondo dell’agricoltura, Previdi sarebbe poi diventato, come Moggi, uno dei re del calcio mercato, lavorando per la Roma di Viola e per il Napoli di Ferlaino, per la Fiorentina dei Pontello e per il Bologna.

“Previdi e Moggi erano i migliori — ha raccontato poco prima di morire Italo Allodi, il primo grande manager del calcio italiano, al servizio di Moratti padre all’Inter e degli Agnelli poi —. Raramente sbagliavano nel giudicare un atleta. E non si limitavano a considerazioni di natura tecnica: sapevano cogliere anche le sfumature caratteriali di un giocatore”. Siamo all’alba dei turbolenti anni Settanta. Impercettibilmente, il calcio italiano esce dalle trattorie e comincia a sognare i ristoranti di alta classe. Seduto dietro il banco della biglietteria della stazione di Civitavecchia, Luciano Moggi non fatica a capire una cosa: in quel mondo lì, lui ha tutto per diventare un numero uno. Perché di pallone ne capisce più degli altri.

2/ QUANDO MOGGI DAVA SCACCO ALLA SIGNORA
“L’ipotesi più ardita, secondo la quale questa potrebbe essere la fine dell’Italia come potenza del calcio mondiale, non appare più come una esagerazione” (Rob Hughes, Herald Tribune International, 22 maggio 2006). Possibile che a tanto sia riuscito, da solo, un ex ferroviere come Luciano Moggi? Ex ferroviere, esatto: da stazioni e binari, l’ex ragazzo di Monticiano si era allontanato in fretta, sfruttando l’opportunità di andare in pensione con appena vent’anni di contributi.

Il calcio era il vero mestiere di Luciano: lui ne capiva più di tutti. Lo aveva dimostrato nei panni di ‘osservatore’ al servizio della Vecchia Signora: erano state le sue relazioni a convincere Giampiero Boniperti a vestire di bianconero personaggi come Paolo Rossi, Claudio Gentile, Gaetano Scirea. Campioni straordinari, scoperti quando nessuno ancora se li filava.

Presidente della Juventus per volontà di Gianni Agnelli, l’astuto Boniperti condivideva il giudizio di Allodi su Moggi: bravissimo a scovare talenti, prezioso come collaboratore. Ma poi, stop: per arrivare ai vertici della squadra più amata dagli italiani, l’ex ferroviere avrebbe dovuto attendere il brusco e definitivo allontanamento dell’ex compagno di Sivori e Charles dall’orbita societaria.

Chissà perché. “La verità è che mio nonno Gianni certe figure le sopportava: per lui, l’ultima vera Juventus era rimasta quella di Platini, Boniek, Scirea e Trapattoni. Ma Moggi era il meno peggio , tra quelle figure” (Lapo Elkann, conferenza pubblica del 2 ottobre 2005). Mica c’è solo la Signora, però. Così, nella seconda metà degli anni Settanta l’intraprendente Luciano alza la posta. E fa bene: nell’ambiente è conosciuto ed è difficile dire che non sia competente.

Per di più, da giovanotto ha fatto pure il calciatore, a livello minore. Il primo colpo con la palla tra i piedi non era certo un fuoriclasse, in compenso ha capito una cosa importante: una grande squadra si costruisce nel chiuso di uno spogliatoio. Trent’anni più tardi, nel bel mezzo di uno scandalo devastante, un galantuomo come Massimo Moratti, patron dell’Inter cornuta e mazziata, gli renderà con eleganza l’onore delle armi: “A gestire un club dall’interno, nel contatto diretto con gli atleti e con gli allenatori, Moggi è stato sempre molto bravo”.

E’ bravo anche nelle trattative, figuriamoci. Comincia a svolgere le mansioni di direttore sportivo in una Roma che da molte stagioni vegeta in una poco aurea mediocrità. Nell’estate del 1978, tutti sono convinti che la Juventus, perso alle buste Pablito Rossi per un colpo di follia del presidente del Vicenza Giussy Farina, si consolerà acquistando Roberto Pruzzo, poderoso attaccante del Genoa. Boniperti in persona non ha dubbi: l’affare andrà in porto. Per farsi, l’affare si fa, come no. Solo che Pruzzo, destinato a diventare uno dei bomber più prolifici nella storia del calcio italiano, finisce alla Roma di Moggi.

Tra lo stupore generale. E’ il primo grande colpo dell’ex ferroviere. Il vizietto26 aprile 1998. Allo stadio Delle Alpi di Torino si disputa la partitissima Juventus-Inter. In palio lo scudetto. Sette giorni prima, una clamorosa svista dell’arbitro Rodomonti ha negato ai nerazzurri il sorpasso in classifica: a Empoli, il direttore di gara, per quanto perfettamente appostato, non ‘vede’ il gol del pareggio dei toscani, permettendo così ai bianconeri di imporsi per 1-0, conservando un punto di vantaggio sui pupilli di Moratti.

Angelo Peruzzi, il portiere della Signora, è sincero: “La palla era dentro di mezzo metro”. Nello scontro diretto, accade di peggio. Segna Del Piero, ma l’Inter attacca. Ad un certo punto Ronaldo sta andando in porta: viene abbattuto dal difensore Juliano. L’arbitro, il signor Ceccarini di Livorno, non solo fa proseguire: sugli sviluppi della azione, pochi secondi dopo, concede sì il rigore. Ma alla Juventus.

Ancora oggi, Ceccarini conferma la sua tesi: “Avevo ragione io, non Ronaldo”. Sono passati otto anni: è un po’ come se Silvio Berlusconi, nel 2014, dovesse continuare a negare la vittoria elettorale di Romano Prodi. Comunque, all’epoca lo scandalo è enorme. “Italian mafia”, grida il telecronista della tv inglese. Ronaldo si presenta ai microfoni nel dopo partita e tuona: “Abbiamo giocato in dodici contro undici, tutto il mondo ha visto, queste cose uccidono l’allegria del calcio”. Chi va a rispondergli, in diretta? Ma Luciano Moggi. Che se la cava così: “Ronaldo pensasse a giocare meglio” . Così ci si rivolge al più grande campione in circolazione sulla faccia del pianeta? Perbacco, sì: ne aveva fatta di strada, l’ex ferroviere.

Un incontro troppo casuale. Se Moggi abbia avuto o meno rapporti illeciti con la categoria arbitrale, lo diranno le inchieste penali e sportive. Però quasi vent’anni prima di quella penosa domenica del 1998, il nome dell’ex osservatore diventato diesse era stato accostato per la prima volta ad una vicenda chiacchierata. Il 25 novembre 1979 la Roma, allenata da Nils Liedholm, ospita all’Olimpico l’Ascoli. I giallorossi sono terz’ultimi: piena zona retrocessione. Vincono, i lupi, 1-0, grazie ad una autorete di Scorsa. Ma i dirigenti marchigiani, guidati dal mitico presidente Rozzi, lanciano una accusa pesante: la sera del sabato, Moggi sarebbe stato visto in compagnia dell’arbitro della partita, il signor Pieri di Genova, e dei suoi due guardalinee. Luciano smentisce precisando: vabbè, l’incontro ci fu, ma fu del tutto casuale, passavo di lì per caso. La polemica si trascina per un po’, ma ingiallisce presto negli archivi dei giornali. Quella stessa domenica, l’arbitro Bergamo interrompe al 2’ della ripresa la partita Milan-Napoli, causa nebbia. Avesse sospeso tutto nell’intervallo, gli spettatori avrebbero avuto diritto al rimborso dei biglietti. Così, niente. Per motivi diversi, per la prima volta Bergamo e Moggi finiscono in prima pagina. Ventisette anni dopo, avranno il dispiacere di tornarci. Ancora assieme, si capisce.

3/ DA ROMA A TORINO PER DIVENTARE IL SUPERBOSS
“Dicono che il vero potere sia la conoscenza. Non è esatto: il vero potere sono le conoscenze” (Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti dal gennaio 1969 all’agosto 1974). Non è dato sapere se Luciano Moggi si sia ispirato, nella costruzione della sua carriera, alle parole di Nixon, che curiosamente fu travolto da uno scandalo zeppo di parole rubate, i famosi nastri del caso Watergate. Ma certo di conoscenze l’ex ferroviere ne aveva tantissime. Persino troppe.

Nei brogliacci delle intercettazioni telefoniche che lo hanno rovinato, ci sono tutti: ministri in carica ed ex ministri, prelati e generali, allenatori e giornalisti, segretarie e portaborse. Non manca nessuno. A suo modo, Moggi era un fenomeno: calcolato il tempo che spendeva alla cornetta, vien da chiedersi come riuscisse a lavorare.

“Ma proprio questo era il suo lavoro: farsi credere indispensabile — ribatte Antonio Caliendo, inventore del mestiere di procuratore di calciatori in Italia con Giancarlo Antognoni e mai troppo amico di Luciano—. Lui aveva capito che nel nostro paese la gente va sempre alla ricerca di una protezione, di una raccomandazione, di un aiutino. Moggi ascoltava cento persone e a cento persone diceva: tranquillo, ci penso io. Poi magari non faceva niente, però funzionava”.

Sembra quasi la leggenda del santo millantatore. Ma all’inizio dell’ascesa, qualcuno non abbocca. A fine anni Settanta la Roma viene comprata da Dino Viola, un coriaceo personaggio che guarda con malcelato disprezzo le strutture tradizionali del calcio nostrano. Viola ha una pessima idea della categoria dei direttori sportivi: “Sono tutti maneggioni”, dice un giorno all’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti.

Con Moggi, il nuovo patron giallorosso non lega: lo congeda in fretta senza rimpianti.Appello a Carraro Potrebbe essere l’inizio della fine, per l’ex difensore dell’Akragas, squadra siciliana per la quale il giovane Luciano è stato tesserato. Invece è appena la fine del principio: in un calcio romantico che crede ancora alle bandiere, Moggi è un innovatore modernista . Infatti passa dalla Roma alla Lazio. Cambia ufficio senza cambiare città. Però la fortuna non lo assiste. ” Questa rischia di essere la fine del pallone: è uno scandalo troppo grave”: occhio alla frase, non è della primavera del 2006. Risale invece alla primavera del 1980 e a pronunciarla fu Enrico Berlinguer, segretario del Pci.

Il 23 marzo di quell’anno, le manette tintinnano negli spogliatoi della serie A: viene scoperto un grosso giro di scommesse clandestine, finiscono in galera calciatori famosi come Ricky Albertosi e Pino Wilson, viene coinvolto persino il centravanti della nazionale, Pablito Rossi. Il Totonero umilia la passione di milioni di italiani. Tra le società, le più inguaiate sono il Milan e la Lazio.

La Lazio del neo assunto Moggi, sissignore. Lui non si è accorto di niente: i giocatori compravano e vendevano le partite, puntando forti somme sui risultati ‘taroccati’ presso gli allibratori clandestini. Qualcuno però ha fatto saltare il banco e tra minacce e ricatti si è arrivati all’intervento della magistratura ordinaria. Interviene anche la magistratura sportiva.

Milan e Lazio rischiano la retrocessione in B. Moggi tenta di salvare il salvabile: va in televisione e si appella a Carraro (c’era già anche lui, certo) e a tutti i vertici dello sport italiano, “perché difendano un patrimonio della città di Roma”. Ma non ci crede nemmeno lui.”Io ero uno dei calciatori sotto accusa, vestivo la maglia del Bologna — ricorda Carlo Petrini, conterraneo di Luciano —. La mia testimonianza poteva essere decisiva per tirare dentro allo scandalo anche la Juventus. Incontrai Moggi in un bar a Monticiano, il nostro paese. Lui mi disse: se anche la Vecchia Signora fosse coinvolta, chi comanda dovrebbe salvare tutti, compresa la mia Lazio. Era una logica elementare: siamo o non siamo il paese degli Intoccabili?”.

Non andò così. A torto o a ragione, i bianconeri vennero risparmiati dagli inquisitori. Ventisei anni dopo, vedremo se chi comanda salverà tutti, non essendoci stavolta dubbi sul ruolo della Vecchia Signora nello scandalo. Carriera alla svoltaLa Lazio, assieme al Milan, viene cacciata in serie B. Moggi, totalmente estraneo alle indagini, contempla le macerie. Le esperienze nella Capitale non sono state felici. Sulla sponda giallorossa, Dino Viola ha rinunciato alla sua collaborazione. Sulla sponda biancazzurra, rovinosa catastrofe. Forse sarebbe il caso di fermarsi a riflettere. No, invece.

Come spiegava Richard Nixon, il potere viene dalle conoscenze. Moggi decide di varcare la linea gotica: lassù, nel profondo nord, ha molti amici. Nel 1982, il Torino deve assumere un direttore sportivo. Luciano Nizzola, in futuro numero uno della Figc, è un importante dirigente del club granata. Si consulta di qua e di là e alla fine convince il presidente Sergio Rossi a scegliere Luciano. Per la carriera dell’ex ferroviere, è la svolta. Il ‘suo’ Torino tocca livelli di assoluta competitività. Si, è vero, ci sono episodi non entusiasmanti. Ancora accuse della concorrenza su presunti favori arbitrali, per dire.

O l’acquisto (poi invalidato dalla Lega) dell’attaccante serbo Susic, che aveva firmato però pure un contratto con l’Inter: strana vicenda, che molti anni dopo avrà un replay, con il portoghese Luis Figo protagonista conteso dalla Juve moggiana e dal Parma. Ma sul campo il Toro di Luciano va. Sfiora addirittura lo scudetto, nel 1985. E tra i tifosi della squadra che fu di Valentino Mazzola, un signore distinto diventa molto amico del manager. Di nome fa Antonio. Di cognome fa Giraudo. “Nel 1983 la Juve di Platini perse un derby coi granata, da 2-0 finì sotto 3-2. Negli spogliatoi, il più scatenato tra quanti festeggiavano la vittoria, assieme a Moggi, era proprio Giraudo” (Cesare Romiti, ex presidente della Fiat).

4 / CON MARADONA BASTANO 100 LIRE PER UNO SCUDETTO«Lei mi chiede quanto può costare uno scudetto? Beh, a volte per vincerlo bastano appena cento lire» (Gianni Agnelli, maggio del 1990).
Alla Torino granata, Luciano Moggi deve, nella seconda metà degli anni Ottanta, l’incontro con Antonio Giraudo. Ma ancora non ci sono le condizioni perché i due possano diventare soci sul lavoro: la Juventus è saldamente nelle mani di Giampiero Boniperti e con lui l’ex ferroviere non ha prospettive.

«Una volta, quando faceva l’osservatore per la società bianconera, Moggi mi si presentò dicendo: sono il nuovo direttore sportivo della Juve — ricorda Alberto Michelotti, il miglior arbitro italiano di una generazione fa —. Io rimasi sorpreso, non ne sapevo niente. Incontrai il dottor Giuliano, il più stretto collaboratore di Boniperti, e gli chiesi chi fosse questo nuovo diesse. Giuliano si mise le mani nei capelli e mi disse: per carità, non scherziamo…».

Pur avendo la Vecchia Signora nel cuore, nel 1987 Moggi capisce che a Torino, sulla sponda Toro, non ha margini di crescita professionale. D’accordo, ormai è un boss del mercato. D’accordo, conosce tutti, dalla serie A alla C2, dai dirigenti agli arbitri, dai giocatori agli allenatori. Eppure, dopo quasi dieci stagioni da manager al massimo livello, il suo albo d’oro professionale si racchiude in un numeretto: zero. Zero vittorie, cioè.

IL MALORE DI ALLODI
E’ tempo di cambiare aria, per provare a tradurre in risultati quella competenza che nessuno mette in discussione. E il destino si incarica di dargli una mano.
A Napoli, un malore improvviso mette kappao Italo Allodi. Proprio Allodi: il mentore di Lucianone. Corrado Ferlaino, il proprietario del club partenopeo, è un imprenditore spregiudicato. Per anni, nel pallone, ha lanciato moniti minacciosi alle potenze calcistiche del Nord: poi, nel 1984, con l’aiuto dei politici vesuviani (che fanno aprire una banca alle due di notte per garantirgli il finanziamento per l’operazione) ha acquistato il più grande talento del secolo dopo Pelè: Diego Armando Maradona. Con Allodi in ospedale, a maggio del 1987 il Napoli conquista il suo primo, storico scudetto.

Molti pensano che Allodi sia insostituibile. In effetti, lo è: a sua volta molto chiacchierato per le sue relazioni con la classe arbitrale, Allodi era però diversissimo da Moggi. Aveva lo stile di un nobile gentiluomo di campagna: dalla famiglia Moratti e dagli Agnelli, suoi ex datori di lavoro, aveva imparato la raffinatezza dell’esistenza. Con lui si cominciava parlando di un centravanti e si finiva conversando di un dipinto di Guido Reni.

Ferlaino, comunque, alle pale rinascimentali preferisce le palle giocate dal divino Maradona. Deve rimpiazzare Allodi: ingaggia Lucianone e gli affida la gestione della squadra campione d’Italia.

TRICOLORE INSANGUINATO
Moggi sotto il Vesuvio è uno spettacolo tra commedia di Eduardo e film di Totò. Ne succedono di tutti i colori.
C’è il bianco della cocaina che Maradona consuma in quantità industriale: lo sanno anche i bambini, a Napoli, ma solo nel 1991 un controllo antidoping smaschererà il fuoriclasse argentino, tra il finto stupore generale.
C’è il nero della camorra: Dieguito frequenta senza alcun problema i signori della mala.

C’è il giallo di uno scudetto incredibilmente perduto, nella primavera del 1988, a beneficio del Milan ‘olandese’ di Berlusconi e Sacchi: gli azzurri crollano nel finale e volano gli stracci, fra accuse mai provate di partite vendute, scommesse clandestine e rivolte nello spogliatoio, diretto dal ruvido allenatore Ottavio Bianchi, detto ‘Il Piastrella’.

Il caos dovrebbe travolgere anche Moggi, in teoria addetto al controllo della squadra, vizietti di Maradona compresi: no, invece. Perché c’è un colore in più: il rosso del sangue (presunto) che schizza dalla testa di un calciatore brasiliano. E’ la primavera del 1990. Il Napoli ha sostituito Bianchi, che nel 1989 si è congedato conquistando la Coppa Uefa, con Albertino Bigon e contende il titolo al solito Milan. A tre giornate dalla fine, i rossoneri sono avanti in classifica. Gli azzurri giocano una difficile partita a Bergamo, contro l’Atalanta (e stavolta Bergamo, detto Atalanta, futuro designatore arbitrale, non c’entra).

I partenopei non riescono a sbloccare il risultato: le due squadre sono ancora sullo 0-0, quando una monetina (da cento lire, o forse da cinquanta, non si è mai capito bene) lanciata da un teppista sfiora la tempia del centrocampista Alemao. Logica vorrebbe che l’atleta, una volta medicato, riprenda regolarmente il suo posto. Ma qui mica stiamo parlando di sport, stiamo parlando di calcio: convinto a fingersi mezzo morto dal massaggiatore Carmando, il brasiliano abbandona il campo. Scoppia un finimondo.

Silvio Berlusconi, che è ancora ‘solo’ il presidente del Milan, tuona: «La partita del Napoli si è conclusa 0-0, ormai lo scudetto è nostro». Ma il Cavaliere sottovaluta Moggi: che scatena una furibonda battaglia, in tv e sui giornali, in nome del rispetto delle regole. Poiché il forfait di Alemao ha menomato la squadra di Bigon, Lucianone esige la vittoria a tavolino.

UNO SCANDALO
E’ uno scandalo a cielo aperto. Applicando le norme alla lettera, la giustizia calcistica assegna a Maradona e compagni il successo e di fatto il tricolore: ma poiché qualcuno si vergogna, la Figc precisa che da lì in poi certe furbate non saranno più tollerate. Berlusconi, indignato, la giura ad Antonio Matarrese, ciarliero numero uno federale: intanto, però, Luciano Moggi ha vinto il primo scudetto della sua vita. Come fa notare causticamente Gianni Agnelli, gli è costato molto poco: appena cento lire. Che forse erano cinquanta.

5/ DAVANTI A LUI TREMAVA TUTTA ITALIA, ORA E’ NELLA POLVERE
“Ci si può divertire anche ad un funerale, basta osservarlo da una angolatura diversa da quella del morto” (Totò).
Chi poteva immaginare, ancora un mese fa, che proprio Luciano Moggi sarebbe stato il becchino della credibilità del calcio italiano? Chi aveva osato formulare ipotesi controcorrente, ad esempio un certo Zeman, aveva pagato subendo una ostinata emarginazione. Mentre ancora oggi non mancano strenui difensori dell’ex ferroviere: istruttive sono state le ultime esternazioni di personaggi come Ciro Ferrara e Fabio Cannavaro, al netto della umiliante rettifica alla quale il capitano (?) della nazionale è stato costretto. Ferrara e Cannavaro, il signor Moggi li aveva conosciuti a Napoli. Da dove se ne era andato poco dopo l’autoaffondamento di Diego Armando Maradona, affogato nel fiume bianco della cocaina.

Da lì, dal Sud borbonico, che bene o male gli aveva fruttato uno scudetto da cento lire e una Coppa Uefa, Luciano era risalito al Nord. Sempre sognando la Juve, s’intende. Ma ancora accontentandosi del Torino.Il Moggi-bis, alla corte granata, viene ricordato, più che altro, per una curiosa inchiesta della Procura del capoluogo piemontese.
Salta fuori una storiella boccaccesca: il Torino si fa largo in Coppa Uefa, ma c’è chi segnala la presenza di discinte signorine negli hotel che ospitano le terne arbitrali designate dalla federazione europea. Moggi viene indagato per sfruttamento della prostituzione .

I suoi nemici fanno girare la voce che pure a Napoli, all’epoca del trionfo europeo degli azzurri nel 1989, i papponi avevano combinato affari d’oro spedendo procaci squillo a riempire i tempi morti di fischietti e guardalinee. Cattiverie, si capisce. L’inchiesta di Torino non sfocia mai in un processo.

Però sulla sponda bianconera della città hanno una certezza: fino a quando Boniperti sarà in groppa alla Zebra, Moggi la Juve potrà sognarsela solo di notte. Per una questione di stile. Invece, il passaggio dalle signorine alla Signora è dietro l’angolo.

IL MITO
Nel 1994 calcio e affari si intrecciano pericolosamente. Umberto Agnelli si vede negare la presidenza della Fiat da un veto, l’ennesimo, del banchiere Cuccia. Il fratello Gianni, nell’ambito di un necessario riassetto degli equilibri familiari, affida a Umberto la gestione del club bianconero. Le prime vittime del ribaltone sono Boniperti e il Trap. Umberto ha grande fiducia in un manager che, a suo nome, ha restituito smalto alla stazione sciistica del Sestriere: Antonio Giraudo. E in effetti Giraudo è bravo: ha legato il nome di Alberto Tomba agli impianti del Colle e ha ottenuto l’organizzazione dei mondiali di sci alpino del 1997, prima tappa verso la conquista della Olimpiade torinese del 2006. Però non è un esperto di pallone.

Da tifoso granata, molti anni prima Giraudo aveva conosciuto Moggi. Se ne ricorda. Lo chiama. Luciano si fa trovare pronto: si era promesso alla Roma e per la Roma aveva a lungo trattato gli acquisti di Ciro Ferrara e del centrocampista portoghese Paulo Sousa. I due, nel giro di una notte, finiscono invece alla Juventus, al seguito dell’ottimo manager.
Il presidente della società giallorossa, il ruvido Sensi, dichiara guerra all’ex ferroviere. Dopo alterne vicende, la perderà. Perderà, beninteso, anche il calcio italiano: perché qui comincia il mito di Moggi. L’Intoccabile.

LA CRONACA
Il resto è vita quotidiana, cioè montagne di pagine di intercettazioni. La combinazione tra la forza tradizionale del marchio Juventus e la spregiudicata modernità di Lucianone porta a quello che oggi tutti sanno, compresi i tifosi bianconeri in buona fede (chi è in mala fede, negherà sempre e comunque l’evidenza). Una sindrome di onnipotenza: persino leggendole giusto per farsi una risata, queste sono le telefonate di chi si ritiene Intoccabile, a prescindere.
E la proprietà Fiat, che ora si proclama estranea a certi metodi, non risulta si sia lamentata, quando con Luciano si vinceva. Per la Juve moggiana, tante sono state le conquiste in patria: forse resteranno negli albi d’oro, ma su troppe aleggerà per sempre l’ombra del dubbio. Tante, in compenso, sono state le sconfitte oltre il valico di Chiasso, cioè in Europa: forse perché l’italianissimo Moggi, all’estero, tutto sembrava, fuorché un mito. All’inizio di questa storia abbiamo scritto che Moggi ‘è’ il calcio nostrano: l’intera sua avventura appartiene per intero alla degenerazione di un sistema.

L’uomo non è un ‘tumore’ e nemmeno era un mostro. Per chi poteva permettersi di ignorarne il Potere, era pure simpatico: un figlio non troppo istruito della provincia toscana, un ex ferroviere in pensione sinceramente devoto a Padre Pio, un signore legatissimo alla famiglia, un grande intenditore di terzini e mediani. Poi, basta. Mica poco, se si fosse accontentato.

Le domande vere, sono altre. E fanno male. Perché un arbitro come Paparesta si lascia chiudere a chiave in uno stanzino e non protesta? Perché un arbitro come De Sanctis era stato addirittura designato per i mondiali? Perché giornalisti considerati autorevoli concordano articoli e apparizioni tv con un signore di fronte al quale dovrebbero invece rappresentare l’opinione pubblica? Perché per anni è stata ritenuta normale l’esistenza di una società come la Gea, che coinvolgendo uno stuolo di ‘figli di’ (presidenti, dirigenti, eccetera) incarnava un mostruoso conflitto di interessi? E tutti gli altri, i Lippi e i Capello, i Galliani e i Carraro, perché non si iscrivono al campionato del mondo dei Distratti? Quello, lo vincerebbero di sicuro.
La risposta, malinconicamente sconfortante, è forse racchiusa in una canzonetta di Toto Cutugno, l’inno del Bel Paese in versione moggiana. «Io sono un italiano, un italiano vero».

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4 Commenti a “Moggi story: la vera storia di Lucky Luciano”

  1. Patrizia scrive:

    Ciao Leo,
    eccomi sul blog. Non credo però che nessuno abbia fatto i complimenti al tuo capolavoro su Luciano Moggi e spero anche di non comparire proprio io. Ho letto quasi tutto e cosa dirti? continua così….
    Ciao buona giornata, Patrizia

  2. Antonio scrive:

    eccellente lavoro.
    sono capitato per caso, ed essendo un tuo vecchio lettore di Pallavolo (25 anni fa, mamma mia!) mi sono soffermato.
    poi la lettura mi ha rapito

  3. Luciano scrive:

    A metà maggio, il lavoro di scasso ha offerto il suo bottino squisito. Tutti sanno tutto. I protagonisti malmessi sanno che cosa hanno detto, quando e come lo hanno detto; che cosa gli sarà contestato in un eventuale interrogatorio o testimonianza. Il programma degli impiccioni di Napoli salta. Era ambizioso. I pubblici ministeri erano convinti di poter ricostruire addirittura un ventennio di storia di “calcio sporco” (1986/2006), dimostrare la continuità del Sistema e la discontinuità tra la gestione di Italo Allodi e la mano di Luciano Moggi. Ne vedono addirittura la nascita quando Allodi cade per un’inchiesta del pubblico ministero di Torino, Giuseppe Marabotto, che vent’anni dopo ritroviamo “consulente giuridico” del “nuovo gestore” del Sistema.

    Armando Carbone, che fu “l’uomo di mano” di Italo Allodi, racconta (interrogatorio del 20 maggio 2005): “Quell’operazione giudiziaria fu architettata da Luciano Moggi per prendere il posto di Allodi. Non ho esitazioni a riferire che il giudici Marabotto e Laudi furono strumenti di Moggi e sono persone con le quali Moggi ha continuato a intrattenere rapporti fino ad oggi… Marabotto, ogni volta che io - imputato in quell’inchiesta - provavo a parlare del Torino e della Juventus, mi rispondeva che bisognava parlare di altro. Laudi (allora sostituto procuratore e giudice dell’ufficio inchieste Figc) mi disse che della Juve non bisognava parlare

    a fuga di notizie “dolosa” che ha affossato l’inchiesta - Serie A …
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    ………fu la nebbia della pianura padana ( 11 Gennaio 1987 ) che fece venire a Allodi l’ictus?! O fu il libeccio che spirava forte in quei giorni a Napoli?!

    chi o cosa fu?!

  4. gabriele scrive:

    ALEMAO E CARMANDO SONO LE PERSONE CHE SE INCONTRO ANCORA DOPO 17 ANNI INSULTO VIOLENTEMENTE.SEMPRE CHE NON MI PARTE LO SCHIZZO E GLI METTO LE MANI ADDOSSO

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