Oltre allo sport c’è di più

 
10 Marzo 2010 Articolo di redazione
Author mug

“Mi hanno mostrato come fare. Mi hanno permesso di usare una mitragliatrice. Era difficile controllarla, ma è stata una bella sensazione. Pensavo che sarebbe stato bello avere qualche serbo davanti a me”.

Sono passati diciassette anni da queste dichiarazioni di fuoco di Goran Ivanisevic, il campione che ha abbandonato la nazionale jugoslava di Davis prima della semifinale con la Francia nel 1991 dopo l’annuncio dell’indipendenza croata. Il simbolo di una nazione, che ha giocato a Wimbledon con la maglia a scacchi biancorossa, che chiedeva all’ATP di essere iscritto come croato, non come jugoslavo, che affermava “la mia racchetta è la mia pistola” e non si è fatto spaventare dalle minacce di morte continuando a portare slogan politici sulle magliette.  Alessandro Mastroluca

Messa alle spalle la guerra, il tempo ha trasformato gli angoli più pungenti in curve nella memoria, ma le scintille tra croati e serbi continuano a rimanere vive, anche se sotto la cenere. E il prossimo quarto di Davis potrebbe riaccenderle. O meglio, le ha già riaccese.

Anche se tra giocatori serbi e croati il rapporto è assolutamente disteso, qualche piccola grande scaramuccia verbale è già iniziata. Ha dato il la Nikola Pilic, il croato che con il suo rifiuto a rispondere alla convocazione in Davis nel 1973 ha dato il la allo storico boicottaggio a Wimbledon e creato il casus belli per la nascita dell’Atp; l’allenatore nato a Spalato ora è consulente per la federazione serba, e le sue rimostranze sono tutte legate alla sede decisa per la sfida, la sua città natale.

La stessa città da cui il 18 ottobre 1991, dopo l’annuncio dell’indipendenza, i cestisti rimasti dello Slobodna Dalmacija Split, tre volte campioni d’Europa, sono scivolati scortati dalle forze internazionali di pace su una barca diretta a Venezia. La stessa città in cui, a ottobre, Croazia e Serbia si sono ritrovate per un incontro di calcio valido per le qualificazioni europee under-21: per la cronaca, ha vinto la Croazia 3-1 in uno stadio gelido, metereologicamente parlando, e semi-vuoto. La stessa Spalato il cui sindaco, Zeljko Kerum, più o meno nello stesso periodo, ha pubblicamente dichiarato, in un discorso alla tv croata, che “serbi e montenegrini hanno portato solo guai ai croati e non permetterò a nessuno di loro di entrare mai a far parte della mia famiglia”.

Che si giochi a Spalato, come vogliono i croati, o a Zagabria, come sta provando a chiedere la Federazione serba, l’incontro sportivo si trova ad avere significati e sperimentare implicazioni che vanno al di là dei talenti di Cilic e Djokovic e di un posto nelle semifinali del World Group. Il simbolismo di questa sfida mette in gioco un opposizione mai sanata tra gli opposti nazionalismi, attraverso una lente autentica, che nella storia è stata a volte più vera del vero, per leggere questioni e focolai di rivalità storico-politiche.

E non dobbiamo tornare troppo indietro nel tempo per comprendere quanto la contrapposizione sia sentita e vissuta, quanto l’affermazione sportiva diventi veicolo di affermazione di un’identità, un segno d’orgoglio inseguito più dai tifosi che dai protagonisti in campo, per cui l’altro è solamente un avversario. A Melbourne, il 15 gennaio del 2007, oltre 150 tra tifosi croati, serbi e greci sono stati espulsi dagli Australian Open per atti di violenza. Intorno alle 12.30 locali, mentre i serbi si erano raccolti per tifare Jelena Jankovic (che batterà 63 63 Aleksandra Wozniak) e i croati si erano radunati per assistere ai match di Ivan Ljubicic e Mario Ancic, scoppia una rissa iniziata con una serie di cori offensivi e finita con lanci di bottiglie, pugni, calci e assalti con le aste delle bandiere usate come armi: il quotidiano australiano “The Age” riferirà di un tifoso croato ferito perché colpito alla testa. Si ritrovano coinvolti anche sostenitori ellenici, che iniziano a cantare “Grecia, Serbia, Grecia, Serbia”: anche loro vengono espulsi dal torneo per tutte le due settimane.

Incidenti si sono ripetuti anche nel 2009, durante il match tra Janko Tipsarevic e Marin Cilic: i due gruppi di tifosi stavano guardando la partita sui maxischermi di Melbourne Park e hanno iniziato a lanciarsi sedie e bottiglie. Due arresti e trenta espulsioni il bilancio della rissa, che si è conclusa senza feriti gravi.

I grandi eventi hanno spesso funto da cassa di risonanza per scontri sportivi di valenza extra-sportiva, come la semifinale di pallanuoto delle Olimpiadi di Melbourne 1956 tra Russia e Ungheria, a pochi mesi dall’invasione di Budapest da parte dei carri armati dell’Armata Rossa, entrati a sedare la rivoluzione studentesca. Finisce con il russo Prokopov che con un pugno rompe il sopracciglio del magiaro Erwin Zador: su suggerimento di un compagno esce dalla parte più lontana, perché quella su cui si affacciavano le tribune, tingendo l’acqua di rosso.

È un’altra invasione militare sovietica, quella del ’68 a Praga, a spiegare perché ogni volta che a hockey giochino Russia e Repubblica Ceca (o Cecoslovacchia prima) non sia mai una partita come le altre.

È nata una guerra sulla scia dello sport:  la “Guerra del calcio”, o “Guerra delle cento ore”, tra Honduras e El Salvador, scoppiata il 14 luglio 1969. Un mese prima le due nazionali si erano affrontate nelle qualificazioni per i mondiali del Messico. L’8 giugno, a Tegucigalpa, tifosi salvadoregni tagliano le ruote al pullman ospite; la nazionale di casa vince 1-0 e in Salvador la diciottenne Amelia Bolanos si spara un colpo di pistola al cuore. L’opinione pubblica giura vendetta. E vendetta è: sassaiola contro l’albergo dove alloggiano gli honduregni, trasferiti in un altro hotel e scortati nei carri armati fino allo stadio. Ci furono due morti e decine di feriti: El Salvador vinse 3-0 e si rese necessario uno spareggio, all’Azteca di Città del Messico. El Salvador vinse 3-2 ai supplementari, e i 5000 agenti di polizia non riuscirono a evitare una guerriglia durata ore.

Le guerre hanno fatto da sfondo a match rimasti nei libri di storia dello sport. Nel clou della Guerra Fredda, alle Olimpiadi Invernali di Lake Placid, un gruppo di dilettanti e giocatori universitari statunitensi conquistò l’oro a cinque cerchi. Il “miracolo sul ghiaccio” ha toccato il culmine nel 4-3 all’Unione Sovietica, con gli Usa capaci di rimontare per tre volte un gol di svantaggio. Il coinvolgimento emotivo è tale che Al Michaels, telecronista dell’ABC che commentava la partita in diretta, concluse così: “Undici secondi, vi restano dieci secondi, stanno contando alla rovescia in questo momento… restano cinque secondi di gioco! Credete nei miracoli? Sì!”. Il coinvolgimento emotivo nel match è tale che molti americani oggi non realizzano che la vittoria non fu immediatamente decisiva per la conquista del titolo.

C’era l’invasione delle Falkland ad accrescere il significato della semifinale mondiale del 1986 tra Argentina e Inghilterra, quella che ha poi assommato il meglio e il peggio del passato secolo pedatorio: la “Mano de Dios” e il gol del secolo.

Non era una contrapposizione militare, ma un muro di cemento e filo spinato a dividere Berlino Est e Berlino Ovest. Un muro la cui eco arrivava anche a 300 chilometri di distanza, a Amburgo, il 22 giugno 1974 quando Germania Est e Germania Ovest si affrontavano nel girone eliminatorio del Mondiale. Le squadre sono già qualificate, ma la pressione è altissima: alla vigilia si paventa anche un possibile attacco della banda Baader-Meinhof. E’ la prima sfida tra le due nazionali: quel giorno un pezzo di muro idealmente inizia a cadere, al minuto 77, quando Jurgen Sparwasser, come scrisse Gunther Grass, “ accalappiò il pallone con la sua testa, se lo portò sui suoi piedi, corse di fronte al tenace Vogts e, lasciandosi persino Höttges dietro, lo piantò alle spalle di Maier in rete”. La Germania Est vinse 1-0.

La volontà di separare ciò che nasce unito è anche la ragione della nascita del Pakistan (il cui nome, “terra dei puri” è stato pensato per la prima volta in un pamphlet del 1933 Choudhary Rahmat Ali, studente di Cambridge, ed è un acronimo delle cinque regioni del Raj britannico: Punjab, Afghania, KashmIr, Sindh, BaluchiSTAN). L’indipendenza dell’India, decisa per volontà inglese con un tratto di matita sulla cartina geografica, e la separazione tra Pakistan occidentale e orientale (l’attuale Bangladesh) hanno reso la vicinanza tra India e Pakistan tra le meno pacifiche dell’area: e la rivalità a cricket tra le più accese, cos come a hockey su prato, in cui le due nazionali sono tra le più forti del mondo. La pressione coinvolge tifosi e giocatori, e il 17 luglio 2008 si è risolta in una rissa in campo durante la semifinale di Coppa d’Asia Under-18 di hockey prato. Anche se dopo il conflitto del Kargil del 1999 la rivalità si è mantenuta sui toni di una pacifica, per quanto intensa, contrapposizione sportiva.

Non bastano, poi, le considerazioni sportive per spiegare gli effetti della vittoria per 1-0 degli Usa ai Mondiali di calcio del 1950 sull’Inghilterra (la stessa nazionale battuta qualche mese prima, nel settembre 1949, a Liverpool dall’Irlanda, prima nazionale non del Regno Unito a sconfiggere i Tre Leoni in casa). O per spiegare perché Usa-Iran a Francia ‘98 è stata trasformata in un evento in cui il risultato sportivo passò in secondo piano: in quel caso non ci furono incidenti.

Ci sono stati, invece, per l’ultima gara di qualificazione a Sudafrica 2010 tra Egitto e Algeria. Prima del match, al Cairo, i giocatori algerini vengono attaccati con lanci di pietre: feriti la stella Khalid Lemmouchia, Rafik Saiki e Rafik Hallike. La nazionale algerina, strano incrocio del destino e del business,  sponsorizzata da un gestore di telefonia mobile, Djezzy, rilevato da Orascom del tycoon egiziano Naguib Sawiris: lo stabilimento di Algeri dell’azienda viene devastato con danni per cinque milioni e i 25 dipendenti vengono richiamati in patria. L’Egitto vincerà, con un gol all’ultimo minuto, e le due squadre si ritroveranno per uno spareggio decisivo a Khartoum. L’Algeria vince 1-0 e passa. Dopo il successo, migliaia di tifosi assaltano l’ambasciata algerina del Cairo con bandiere date alle fiamme e lanci di sassi e petardi. Un attacco nato sull’onda delle voci, veicolate anche da internet, di tifosi egiziani uccisi dagli algerini nella capitale sudanese, anche se nessuna morte è stata confermata.

Ci sono anche casi in cui il surplus di significato, il valore in più che trasforma una vittoria in un evento memorabile, è tutto racchiuso nella ristretta dimensione dello sport. In questa categoria rientrano le sfide tra Canada e Usa a hockey su ghiaccio: non basta la medaglia d’oro in palio, infatti, a spiegare perché l’80% della popolazione canadese ha guardato almeno una parte della recente finale olimpica di Vancouver, trasformandola nell’evento sportivo più visto nella storia della televisione canadese.  Bisogna tornare alla fine degli anni Ottanta, quando la NHL era composta da sei squadre, due terzi delle quali basate in Usa, ma con il 95% di giocatori canadesi. Bisogna andare al 1991 quando lo statunitense colpì da dietro Wayne Gretzky, estromettendo “The Great One”dalla Canada Cup e probabilmente diventando la causa della lunga serie di problemi alla schiena del più grande giocatore di tutti i tempi.

Non ci sono stati conflitti armati, eppure nel calcio la rivalità tra Danimarca e Svezia è tra le più sentite d’Europa. Il 2 giugno 2007, al Parken Stadium di Copenhagen, le due nazionali si sono affrontate per la prima volta nella storia in un match di qualificazione (per Euro 2008, nello specifico); e per la prima volta nella storia un incontro di qualificazione dell’area europea è stato interrotto per l’invasione di un tifoso, entrato in campo per attaccare l’arbitro Fandel “reo” di aver espulso il centrocampista danese Christian Poulsen che aveva colpito con un pugno allo stomaco l’attaccante Markus Rosenberg all’89’. La Danimarca, che era stata capace sul campo di rimontare da 0-3 a 3-3, è stata punita con la sconfitta a tavolino.

C’era stata l’occupazione nel 1940, ma la ragione della rivalità tra Olanda e Germania sta tutta nello sport, dopo finale mondiale persa nel 1974. Van Hanegem, che aveva giocato quella finale, disse che “i tedeschi hanno gli antenati sbagliati”. Nel 1993 il Clingendael, l’istituto olandese per le relazioni internazionali pubblicò una ricerca sugli orientamenti degli adolescenti olandesi: di fronte alla richiesta di ordinare I Paesi della CEE in base al gradimento, I ragazzi misero la Germania all’ultimo posto. Un simile livello di antagonismo c’era solo tra chi aveva subito l’occupazione. E tutto per il calcio.

Eric Van Muiswinkel, nella poesia “Quanto profondo scorre”, così spiega Bene e Male: “arancione, Gullit, Bianco; bianco, Matthaus, nero”. Il contrasto diventa perfetto ad Amburgo, nella semifinale dell’Europeo 1988. Non è solo un ritorno all’epoca della resistenza contro la Wermacht, è una sfida “morale” tra l’Olanda egualitaria e calvinista, in cui tutti pensano di avere ragione e poter discutere e criticare gli allenatori, e I tedeschi accusati di essere spocchiosi e arroganti. L’arbitro perde subito di vista la partita (il rumeno Ion Igna aveva già mostrato poca vista prima quando, avendo ricevuto un biglietto sbagliato, per Stoccarda, era volato lì senza contestare raggiungendo la città anseatica appena in tempo per il fischio d’inizio): rigore più che dubbio a Klinsmann, un altro ancora più dubbio a Van Basten, che raddoppia a dieci minuti dalla fine. Dopo la partita I giornalisti si commuovono e abbracciano I giocatori ringraziandoli. Scesero in piazza nove milioni di persone (il 60% della popolazione). In piazza Leidseplein, a Amsterdam, la gente lanciò in aria delle biciclette gridando “Urrà, ci siamo ripresi le biciclette”, simbolicamente riscattando la confisca operata dalla Wermacht durante l’occupazione.

Olanda-Germania è anche la partita dello sputo di Rijkaard a Voller a Italia ‘90, a San Siro, mentre Milano vive una giornata in assetto di guerra e una notte di fuoco e disordini. Gli strascichi di quella partita hanno alimentato ancora di più la forza della rivalità tra due nazionali che si ritrovano, nel 1992, nella fase finale degli Europei, a Goteborg. Prima della partita Michels disse ai suoi: “Ciò che sto per dire è qualcosa che non ho mai detto prima. Oggi segnerete tre gol, due saranno realizzati dai nostri centrocampisti, e I tedeschi segneranno una o due reti”. Dopo due minuti segna Rijkaard, e tre tedeschi lanciarono una piccola bomba a frammentazione in un pub a Kerkrade, ferendo tre persone che non stavano guardando la partita. Segnarono, poi, la mezzala Witschge e l’attaccante Bergkamp, e in mezzo il tedesco Klinsmann. La profezia di Michels si avvera. Dopo la gara, a Kerkrade, tedeschi e olandesi si lanciano sassi e boccali di birra. Cinquecento olandesi passano la frontiera, a Enschede, per andare a distruggere la cittadina tedesca di Gronau. La voglia di rivalsa, come spiega Simon Kuper nel suo libro, “Calcio e potere”, benché riempita da parole come Wermacht o Resistenza, non aveva niente a che fare con l’occupazione nazista o con la guerra. Erano solo etichette “con le quali affermare che i nostri giocatori erano la quintessenza dell’olandesità e i loro tipicamente tedeschi”.

Da allora la sfida ha perso mordente, è rimasta una rivalità sportiva sentita ma senza extra-significati, e il Clindeangel Institute ha smesso di preoccuparsi. E’ il destino di tutte le grandi sfide sportive che hanno dietro contrapposizioni politico-militari, che mettono in campo simbolismi, affermazioni di identità e nazionalismi. E’ il destino anche di Croazia-Serbia, anche se se adesso il passato è troppo vicino perché si possa considerare già una terra straniera, senza alcuna attinenza con quanto accadrà a Spalato, o a Zagabria o dove sarà, quest’estate.

L’affermazione, la supremazia sportiva, benché per i protagonisti l’altro sia ormai solo un avversario, per i tifosi è lo spunto per una rivalsa, per la riaffermazione di un’orgoglio, di un’identità, di un’appartenenza. Ed è questo che rende Croazia-Serbia più di un semplice quarto di finale di Davis. Anche se, per fortuna, le racchette non sono più pistole.

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8 Commenti a “Oltre allo sport c’è di più”

  1. christian turba scrive:

    Bello..dove le hai trovate tutte queste notizie? COmplimenti comuqnue..

  2. Croato scrive:

    State facendo un caso per nulla. Ma siete giornalisti è il vostro lavoro. Serbia e Croazia si sono incontra in questi anni molte volte i paesi nostri sono venuti a contatto vicini e non è mai success nulla. Perchè non ne parlate dopo invece che prima? è articolo senza senso. Siamo non animali ci sappiamo controllare e la guerra è acqua passata

  3. Philip scrive:

    Articolo eccellente, di alcune di queste rivalità non avevo mai sentito parlare…Mi sembra però di ricordare che Argentina-Inghilterra ai Mondiali ‘86 si siano affrontate ai quarti di finale, non in semi..In semi l’Argentina sconfisse il Belgio 2 a 0.Complimenti per il lavoro e il servizio svolto.

  4. anto scrive:

    Articolo di una qualità eccellente, complimenti all’autore.

  5. Vietcong scrive:

    Bellissimo articolo,aggiungo che avete dimenticato “la madre di tutte le battaglie”…la finale delle Olimpiadi di Basket di Monaco di Baviera del 1972(in piena guerra fredda) dove non era una partita ma una guerra e L’URSS sconfisse gli invincibili USA per un punto all’ultimo secondo dopo che l’azione fu ripetuta per ben 3 volte,ed a tutt’oggi i giocatori statunitensi hanno rifiutato la medaglia e detto ai loro eredi di non prenderla mai….CHIEDO alla REDAZIONE DI FARE UN’ARTICOLO SU QUESTA PARTITA DEFINITA DA MOLTISSIMO LA MADRE DI TUTTE LE BATTAGLIE….GLI ARTICOLI DI UBITENNIS SONO I MIGLIORI,GRAZIE TANTISSIMO PER QUELLO CHE FATE…

  6. Ubaldo Scanagatta scrive:

    @croato: non mi pare che Alessandro abbia scritto che voi siete animali. Anzi, non ha nemmeno detto che la guerra dei Balcani è stata una delle più cruente e cattive (ammesso che ci sia una guerra non cattiva….) degli ultimi tempi. Ho chiesto io ad Alessandro di ripercorrere la storia di quelle sfide sportive che avevano _ o potevano avere _ anche altri significati. E mi pare l’abbia fatto benissimo, documentandosi alla grande, con grande impegno giornalistico. Che difatti coloro che hanno scritto qui sopra i loro commenti hanno mostrato di apprezzare. Questo non significa _ tanto più su un sito italiano _ che qui si voglia fare allarmismo per forza. Ci auguriamo tutti, anzi, che non succeda proprio nulla. E sappiamo bene che i tennisti delle due nazioni sono anche in ottimi rapporti: basti pensare a Djokovic e Ljubicic che hanno diviso a lungo il coach italiano Riccardo Piatti e la sua equipe. Però le stesse vicende accennate da Alessandro riguardo a Nikki Pilic dicono che qualche scintilla sotto la cenere c’è ancora. Sull’argomento ho chiesto tramite un caro amico l’intervento di un giornalista croato (che ha la moglie italiana). Spero che me lo mandi, così avremo un parere certamente ben informato. Per quanto mi riguarda….mi piacerebbe che Ubitennis e il mio blog osiptassero più spesso articoli di quest’interesse, anche uscendo un po’ dal rettangolo di gioco.

  7. massimo zippo scrive:

    il mio non è un commento all’articolo, ma una disperata ricerca di una risposta alla seguente mia domanda: c’è qualcuno che mi può dire se l’USTA national tennis center di Flushing Meadows è visitabile al di fuori del periodo in cui si svolgono gli US Open (sono a New York durante il mese di giugno e mi piacerebbe visitare il complesso di Flushing)?

    GRAZIE

  8. Palmlu scrive:

    Non c’ entra nulla ma non so come farvi arrivare diversamente il mio pensiero. Va bene che pecunia non olet ma la faccia e le suonerie di Formigoni su un sito di tennis…

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