I costi della democrazia all’italiana (da Il Domenicale)

Milioni di euro destinati ogni anno a partiti, parlamentari, consiglieri regionali, provinciali e comunali. Sempre gli stessi.E decine di commissioni, agenzie ed enti di sottogoverno spesso utili solo per una “distribuzione politica” delle posizioni.
Il federalismo
dovrebbe significare
maggiori responsabilità
e non più spese

Il costo della politica rappresenta l’elemento più virulento della crisi della democrazia italiana? Quello che impedisce di fatto il cambiamento? Probabilmente sì. Infatti chi ricopre incarichi pubblici, senza alcuna distinzione di appartenenza, sembra che abbia prevalentemente come stella polare il mantenimento delle proprie posizioni economiche. Fenomeno non solo italiano, ovviamente, ma che nel Belpaese ha un’incidenza certamente superiore, forse anche per la presenza del partito comunista più forte dell’Occidente, che ha espresso nelle istituzioni pubbliche in maggior parte funzionari di partito. È evidente che anche nelle altre Nazioni la prima preoccupazione di chi fa politica è di mantenere i privilegi legati alla funzione: è la teoria della public choise. C’è però una differenza sostanziale tra l’Italia e il resto delle democrazie occidentali: la longevità della classe politica. Molti di coloro che vengono considerati “giovani” alle spalle hanno oltre 20 anni di esperienza politica o parlamentare, con conseguenti stipendi e pensioni rivalutabili di anno in anno. In altri Paesi, per esempio, chi perde le elezioni o assume funzioni rilevanti poi svolge le funzione del padre (o madre) nobile. Per esempio Margaret Thatcher, a cui successe il compagno di partito John Major, oppure i Presidenti americani, che poi non si ricandidano né al Senato né al Congresso e né per fare i Governatori degli Stati. Non così in Italia. Il principe di Metternich soleva dire: «La politica ha questo di buono: ci si può ritirare a vita privata in qualsiasi momento». Ma evidentemente non aveva avuto modo di sperimentare l’Italia unita. Pertanto i professionisti della politica, che pure servono, prevalgono sistematicamente, ma gli alti costi che assorbono dovrebbero essere giustificati almeno dalle prestazioni che rendono.

Quanti funzionari servono?
La professione più rappresentata, sia alla Camera che al Senato, è oggi composta dai funzionari di partito. E questo avviene proprio perché occorre mantenere lo status politico perinde ac cadaver. Pertanto, il parlamentare avrà interesse sul serio a debellare la mafia, migliorare la giustizia, rendere competitive le scuole e le università, realizzare le grandi infrastrutture, eliminare gli enti inutili, risanare il bilancio dello Stato (a proposito: l’unico che lo fece – Quintino Sella – perse le elezioni)? Giammai: i movimenti prevalenti saranno – e sono – quelli di garantirsi la benevolenza di chi oggi deve assegnare le prime posizioni in lista. Abolito a furor di popolo nel 1993 attraverso un referendum che ha raggiunto una percentuale del 90,3%, il finanziamento pubblico ai partiti in realtà non è mai stato sospeso: solo nel 2005, le due coalizioni hanno percepito in totale 196 milioni di euro, a cui si devono aggiungere altri 91 milioni di euro per i gruppi parlamentari di Camera e Senato. Altra forma di sostentamento economico della politica sono i finanziamenti pubblici all’editoria di partito che in molti casi mantengono funzionari di partito: i più curiosi possono guardarsi le tabelle e giudicare da soli consultando il sito internet del governo (www.governo.it). “Per consuetudine costituzionale” non è fatto obbligo di sapere come il Capo dello Stato gestisca e spenda i soldi pubblici. Il paradosso è che ottenere analoghe informazioni dalla Casa Bianca americana o dalla cancelleria tedesca è sufficiente collegarsi su internet o farne richiesta attraverso un fax. Scendendo per li rami, si giunge ai costi della Camera dei Deputati e del Senato, cifre alla mano tra i più alti del mondo. In molti sostengono che gli alti emolumenti assicurino l’indipendenza della funzione. Ma, se fosse così, perché si verifica un numero talmente alto di corruzioni nel settore pubblico? E ancora: tale “indipendenza” si estende anche a uscieri, portantini, segretarie e altri dipendenti non specializzati di Quirinale, Camera, Senato e Corte Costituzionale? Infatti, percepiscono in media uno stipendio tre volte superiore a quello dei loro omologhi colleghi nelle altre amministrazioni pubbliche. Qualcosa, oggettivamente non quadra. Giungla contributiva la chiamano: chissà creata da chi. Per ritornare al Quirinale, un solo dato: il numero dei dipendenti è di oltre duemila, ovviamente anche la cifra è avvolta nelle nebbie. In compenso la Casa Bianca, dove il Presidente ha anche funzioni di Capo del Governo, ne ha meno di 500, compresi giardinieri e cuochi. Certamente non diventeremo mai come l’Irlanda, dove i dipendenti del Presidente della Repubblica, che ha funzioni simili al nostro, sono solo 12. Il federalismo, questione inserita tra le priorità dell’agenda politica, rappresenterà un problema molto serio per le regioni del Sud. Infatti a maggiori poteri dovrebbe corrispondere maggiore responsabilità e non maggiore capacità di spesa senza avere il corrispettivo delle entrate. Nel Meridione è prassi consolidata che la rielezione di un amministratore non dipenda da come si sia gestita la cosa pubblica. Quasi mai si assiste a una mancata elezione per motivi puramente amministrativi, ma perlopiù per sottigliezze o giochi a tavolino tra i partiti. La maggioranza dei deputati e dei senatori dal 1861 è stata sempre espressione meridionale. Eppure il divario storico tra Nord e Sud non si è mai colmato. Infine, le Province e le Comunità montane: enti che hanno funzioni che potrebbero essere assolte dalle Regioni o, meglio ancora, dai Comuni con risultati immediati: meno costi e più efficienza. Per non parlare di decine e decine di altri enti (tra cui le authority) dei quali se venissero soppressi non si sentirebbe affatto la mancanza. Strutture pubbliche che, con tutta evidenza nella quasi totalità, non migliorano la democrazia ma la rendono più costosa e inefficiente. Questo, però, ridurrebbe l’area di influenza dei partiti che dovrebbero fare a meno della miriade di cariche di sottogoverno che annualmente si spartiscono. Il costo della politica non è quindi semplice e riduttiva espressione degli sprechi e del clientelismo, rientrando così in una dimensione fisiologica, cioè accidentale, bensì patologica, e cioè strutturale. Solo chi è all’interno delle Istituzioni può cogliere in un certo senso l’ampiezza del fenomeno, e infatti con sistematicità il problema è stato affrontato da esponenti di entrambi gli schieramenti: prima da Raffaele Costa (Polo) e adesso da Cesare Salvi e Massimo Villone (Unione).

Guerra di posizioni
Negli ultimi mesi questo tema si è imposto nell’agenda politica del Paese e sta diventando un serio argomento di dibattito. Ma, a quanto pare, la soluzione tarda ad arrivare. Perché mai? Viene in soccorso il sommo Altan: «Nessuno fa nulla e la polemica infuria: figurarsi se qualcuno facesse qualcosa». E basta leggere un qualunque quotidiano per rendersene conto. Infine c’è un dato importantissimo: cioè i costi delle mancate scelte. Se non si modernizza il Paese, se non si affrontano concretamente i temi delle pensioni, dell’immigrazione, delle opere pubbliche, del risanamento finanziario, della sanità, della ricerca, dell’istruzione di base, si perde immancabilmente competitività e con essa risorse e opportunità. Le scelte invece vengono compiute sempre in funzione del mantenimento delle posizioni personali di potere, oggi ancora più nette in quanto si risponde sempre di più a vertici staccati sostanzialmente dalla base. «La ribellione delle élite» ha provato a definirla lo studioso americano Christopher Lasch. In definitiva, il costo della politica è causa o effetto della crisi della democrazia italiana? Domanda difficile a cui rispondere, ma certamente è un tema che occorre affrontare senza moralismo e populismo, considerando invece l’efficienza della democrazia, che prima di tutto significa risolvere i problemi. Per fare questo occorre sostituire costantemente la classe dirigente, per evitare incrostazioni che sono dannose per il sistema. Per i sindaci è stato introdotto il limite delle due legislature (dieci anni consecutivi di governo). Principio che dovrebbe essere esteso a tutti: consiglieri regionali e parlamentari per primi. Ci ricorda l’antico adagio: “tutti sono utili, ma nessuno è indispensabile”. Il che si può largamente applicare alla nostra classe politica, senza alcun rimpianto eccessivo. Con lucidità, Giuliano Ferrara su Il Foglio ha titolato un suo editoriale “La dolce vita della politica”. Dolce, ovviamente, solo per chi la pratica. Vengono in mente gli emigranti di inizio secolo che, ritornando al paese d’origine, erano soliti commentare la vita italiana: «L’America è qua: là si lavora». I costi della politica hanno quindi un’evidenza diretta legata al costo delle istituzioni, a cui vanno aggiunte altre tre conseguenze: tutto ciò che ruota attorno alla politica (partiti ed enti soggetti alle loro nomine), le mancate scelte di modernizzazione (la nostra, a dirla con Geminello Alvi, è “La Repubblica delle rendite”) e le decisioni sbagliate (assunte in gran parte in vista delle consultazioni elettorali successive). In definitiva, non si tratta di aspetti marginali ma strutturali. Un’ipotesi seria potrebbe riguardare la riduzione di una parte di queste ingentissime somme relative ai costi della politica, riversandole sull’istruzione e la ricerca. Sarebbero milioni di euro spesi senz’altro meglio. Se si vogliono fare cose serie in Italia, occorre partire proprio da qui. Tutto il resto verrà – o non verrà, ma almeno si è provato - da sé.

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