Il pozzo senza fondo della politica italiana (da Reset)

Premessa
Il costo della politica è un elemento strutturale che determina, in Italia, la crisi della democrazia perché contribuisce a individuare una classe dirigente inadeguata. Il triangolo d’oro della politica? Il funzionamento delle istituzioni, il finanziamento pubblico ai partiti e le scelte collegate alla gestione delle istituzioni. La Camera dei Deputati costa un miliardo di euro all’anno, quella spagnola un decimo. Un deputato italiano costa sei volte uno spagnolo. Pensiamo poi al Quirinale: non sappiamo quanti abitanti abbia e come spenda le cifre che sono la somma del bilancio di una città come Bologna.

Costi della politica e qualità della democrazia
Quando si parla di crisi della Repubblica, mi viene in mente quello che secondo me è il più grande politologo italiano – Altan – che in una sua vignetta aveva lucidamente profetizzato: «Prima repubblica, seconda repubblica: facciamo l’ultima e togliamoci il pensiero». Appunto per questo, potrebbe essere interessante collegare le prestazioni della democrazia con la selezione della classe dirigente. Per Robert Dahl la democrazia è un viaggio senza fine. Nei prossimi anni si potrà allargare, restringere o diventare altra cosa. Fareed Zakaria addirittura parla di democrazia senza libertà. Esistono dei sistemi politici sia nei paesi ricchi che in quelli in via di sviluppo dove c’è la possibilità di andare a votare ma al tempo stesso questo non significa affatto che i cittadini si esprimano in modo libero e consapevole, in quanto condizionati da lobby, dall’influenza mediatica e da poteri che operano in forme palesi e occulte. Giorgio Galli sostiene che forse potremmo individuare come spirito di questo tempo la crisi della democrazia e ritiene che negli ultimi cinquant’anni i meccanismi delle democrazie siano indiscutibilmente peggiorati in tutto il mondo. Un tema che è ampiamente sottovalutato e che collegherei con il futuro della democrazia è lo scontro che è in atto, e che sarà sempre più forte nei prossimi anni, tra Stato legale e poteri illegali, quegli anti-mondi, quei fronti planetari del disordine, che caratterizzano sempre di più i processi mondiali. Infatti, credo che la presenza della criminalità transnazionale rappresenti un limite fortissimo al corretto funzionamento delle democrazie, anche di quelle più consolidate. Questo sarebbe un tema su cui discutere molto nel nostro paese, in cui le forze criminali hanno una rilevanza significativa. In Italia come si esprimono le prestazioni della democrazia? Ritengo che non ci sia diffusamente – a livello politico, accademico, culturale e mediatico – la dimensione della crisi devastante che investe la democrazia nel nostro paese. Si affrontano questioni parziali e si procede tra delegittimazioni e demonizzazioni degli avversari, tra risse verbali su presunte questioni di principio, mentre delle cose importanti e gigantesche – come, per esempio, la criminalità – se ne parla solo nell’immediatezza dell’ultimo fatto rilevante. Dal mio punto di vista, vengono posti sul tappeto continuamente – e non so, a questo punto, quanto in malafede – temi marginali: i Pacs, per esempio, sono certamente un problema, ma a me, come per la quasi totalità degli italiani, non interessano né direttamente né granché. Il «declinismo» va combattuto, ma con i fatti veri e non con le intenzioni o i provvedimenti populistici. Senza snocciolare dati noti, ne basta uno del quale si parla poco: il 39% del debito italiano è in mano all’estero. Si tratta di un elemento sconcertante. Va detto chiaramente che le prestazioni della democrazia sono strettamente legate alla qualità della classe dirigente. Uno degli ultimi numeri della rivista «Limes» aveva come titolo L’Italia presa sul serio, ma i primi a farlo dovrebbero essere coloro che la rappresentano. Questa è oggettivamente «la causa delle cause» che determina la crisi della democrazia che è crisi della rappresentanza. Sullo sfondo c’è una legge elettorale dove pochi intimi individuano pochi intimi. Se questi pochi sono illuminati, scelgono persone illuminate: in caso contrario i risultati sono di conseguenza.

Cos’è che non va
Due temi oggi vanno risolti, al di fuori dei luoghi comuni: il federalismo e il costo della politica. Il primo lo stiamo, ovviamente, declinando «all’italiana». Infatti, il federalismo dovrebbe comportare che, a maggiori poteri, corrisponde maggiore senso di responsabilità da parte delle classi dirigenti. Avviene invece esattamente l’opposto. Qualche dato: il debito degli enti locali dal 2000 al 2004 è quasi raddoppiato, passando dal 3% al 5,30%. La spesa dal 1999 al 2004 è aumentata del 32,5% nelle regioni, del 57% nelle province – enti praticamente inutili – e del 23% nei comuni. Il debito delle regioni nel quadriennio 1999-2003 è aumentato del 100%. E la tendenza è questa ed è in aumento. Non a caso c’è chi come Sabino Cassese, Antonio Maccanico e Geminello Alvi parlano dello sfascio rappresentato dalle regioni. Cassese, in una serie di articoli sul «Corriere della Sera» nel 2004 e nel 2005, sostiene giustamente che si sta riflettendo sui poteri da trasferire alle regioni senza discutere su come le regioni siano attrezzate per assolverli. Non a caso, propone di fondare il federalismo partendo dai comuni più che dalle regioni. Maccanico, nel libro di Roberto Napoletano “Fardelli d’Italia” dice che una delle quattro-cinque ragioni che hanno rovinato l’Italia è stata l’istituzione delle regioni. E poi, nell’ultimo libro di Geminello Alvi, “UNa Repubblica fondata sulle rendite”, si sostiene addirittura di abolire le regioni, sostituendole con dimensioni territoriali ottimali e meno sprecone. Assume finalmente rilevanza il concetto di responsabilità e dei conseguenti costi della politica. Sarebbe tragico considerare il problema del costo della politica rubricandolo nella voce «sprechi» oppure nella direzione dei compagni che sbagliano, o, peggio, identificare ancora questo tema in un ambito qualunquistico, moralistico, populistico, alla Guglielmo Giannini o alla Pierre Poujade, offrendo così facili argomenti ai diretti beneficiari. A mio avviso, invece, il costo della politica è un elemento strutturale che determina, in Italia, la crisi della democrazia perché contribuisce a individuare una classe dirigente assolutamente inadeguata. Pertanto, si tratta di un tema legato alle effettive prestazioni della democrazia, essendone contemporaneamente causa ed effetto. Non è questo l’unico problema che abbiamo, ma è indiscutibilmente un problema, ed è un problema notevole. Negli Stati Uniti ci sono due correnti di pensiero: una è la public choice, che ci spiega che le scelte pubbliche vengono compiute dai decisori politici soprattutto in funzione del proseguimento dell’incarico che già rivestono, con i benefits relativi. Come si vede tutto il mondo è paese. E poi c’è la corrente di pensiero della common cause. Sorta nel 1970, è un’associazione di cittadini che si occupa del monitoraggio dei processi organizzativi della politica, con i relativi costi, diretti e indiretti. Per queste ragioni, credo, la crisi del paese è strettamente legata ai costi della politica, e i costi della politica incidono sulle prestazioni della democrazia, diretta conseguenza delle modalità di individuazione della classe dirigente.

Quirinale, 2000 dipendenti
Qual è il triangolo d’oro dei costi della politica? I costi diretti del funzionamento delle istituzioni, il finanziamento pubblico ai partiti e le scelte collegate alla gestione delle istituzioni pubbliche. I costi diretti sono noti e ci vengono sbattuti impunemente davanti agli occhi. Pochissimi dati: basti pensare al Quirinale. Tanto per cominciare, non sappiamo esattamente quanti dipendenti abbia e come spende le cifre – che dovrebbero essere intorno a 250 miliardi di vecchie lire – che sono la somma del bilancio di una città media come Bologna, di 400.000 abitanti. I dipendenti del Quirinale dovrebbero invece essere 2000, ma anche il numero è avvolto nelle nebbie. Sono pochi o molti? Basta fare delle comparazioni. Alla Casa Bianca, dove il presidente è contemporaneamente capo dello Stato e del governo, i dipendenti sono – compresi cuochi, giardinieri e stagiste – intorno ai 400. In Irlanda, dove il Presidente della Repubblica ha funzioni simili a quello italiano, i dipendenti sono 12. Questo ovviamente si riflette su tutto il resto, a cominciare dai parlamentari europei, che guadagnano 149 mila euro all’anno contro i 10 mila degli ungheresi. E teniamo conto che svolgono la stessa funzione e nelle stesse sedi geografiche. La Camera dei Deputati costa un miliardo di euro all’anno, mentre quella spagnola costa un decimo. Un deputato italiano costa sei volte un deputato spagnolo, eppure svolgono le stesse funzioni. Anche la riforma costituzionale che è stata bocciata dal referendum aveva proposto una modesta riduzione di parlamentari da 945 a 752, che peraltro sarebbe entrata in vigore – udite, udite – nel 2016. Un numero sempre sproporzionato se si pensa che con una popolazione enormemente maggiore negli Usa tra Congresso e Senato sono in tutto 540 e in Russia in totale i parlamentari sono 400, concentrati in una sola Camera. In Italia, si registra anche un eccesso dei livelli istituzionali: per esempio, a cosa servono le 365 Comunità Montane che spendono 800 milioni di euro l’anno, se non per assegnare stipendi ad assessori e presidenti? Ma il tema non attiene strettamente ai partiti (per quanto da questi direttamente derivi): possiamo consentirci di pagare un governatore della Banca d’Italia un milione di euro all’anno, quando il presidente della Federal Reserve statunitense costa 180 mila dollari ai contribuenti americani? È una cosa possibile? E ancora: si sostiene che gli alti emolumenti garantiscano l’indipendenza dei nostri rappresentanti elettivi, ma posto per assurdo che sia così – e abbiamo visto comparando con il resto del mondo che non è così – questi privilegi e questi costi si estendono ope legis anche a commessi, segretari, bidelli che lavorano al Quirinale, alla Corte Costituzionale, alla Camera, al Senato e via dicendo? Si tratta sempre di dipendenti della pubblica amministrazione, eppure percepiscono il triplo, il quadruplo, il quintuplo di quello che guadagnano coloro i quali svolgono le stesse funzioni nei comuni, nelle scuole, nei ministeri. Si sostiene che è una giungla retributiva: chissà creata da chi. Il secondo lato del triangolo è rappresentato dal finanziamento pubblico ai partiti. Nel 1993, l’ultima occasione in cui si è raggiunto il quorum di votanti, ai referendum proposti dai radicali, i cittadini italiani risposero con chiarezza e senso di responsabilità, esprimendosi sulla responsabilità civile dei giudici, sulle iscrizioni sindacali, sulla legge elettorale per dare maggiore stabilità alle istituzioni e anche sul finanziamento pubblico ai partiti, abolendolo. Tutti i provvedimenti consequenziali sono stati, uno a uno, vanificati e in particolare oggi il finanziamento pubblico è di gran lunga maggiore di prima. Infatti, solo nel 2005 il finanziamento pubblico ai partiti ha assorbito 196 milioni di euro più i 90 milioni di euro che vengono assegnati ai gruppi parlamentari. A questo va sommata una parte consistente dei quasi 700 milioni di euro rappresentati ai contributi statali all’editoria, che va ai giornali di partiti e sedicenti movimenti politici. Nel complesso, sono cifre importanti e sono queste che ingessano la democrazia. E poi c’è il terzo pilastro, rappresentato dai costi collegati alle scelte – e spesso alle non scelte – politiche. Alcune decisioni ritardano processi, impediscono la liberazione di energie che rimangono invece utilizzate per mantenere rendite parassitarie e improduttive per la collettività, tranne che per i diretti beneficiari. Tutta la gestione politica e amministrativa alloca risorse e determina processi, successi e insuccessi economici di milioni di persone.

Una classe politica bloccata
Quali sono le conseguenze? Il sistema politico esprime una classe politica immobile e anziana. Per esempio, se dobbiamo individuare il rappresentante della massima istituzione repubblicana tra un esponente di 50 e uno di 80, ne scegliamo trionfalmente uno di 80. E questo succede in ogni contesto. Si esprime, quindi, una classe politica inevitabilmente anziana. In questa legislatura che ha appena preso il largo, l’età media alla Camera è superiore ai 50 anni nel 61,1%: nella precedente legislatura era il 52,7%. Specularmene al Senato, chi ha superato i 50 anni sono l’81,1%, mentre nella precedente legislatura era il 74,8%. Questo comporta la conseguenza inevitabile che la prima professione, sia alla Camera che al Senato, è quella dei funzionari di partito: alla Camera sono il 21,4% a fronte del 9,5% della precedente legislatura e lo stesso naturalmente vale per il Senato, dove sono il 19,5% a fronte del 5,5% della precedente legislatura. Con questi dati, dov’è la meritocrazia? E, soprattutto, dov’è la libertà di scelta dei cittadini costretti a votare su liste bloccate? Prevale solo la funzionalità e la fedeltà. E con questi eletti pretendiamo anche che vengano affrontati i problemi delle pensioni, della criminalità, della riforma fiscale, della scuola, dell’università, della ricerca? Ma con questi criteri di scelta dove pretendiamo di andare? A questo si aggiunga che abbiamo una classe politica difficilmente sostituibile. La circolazione delle élite, di cui parlava Pareto, che è l’elemento centrale della democrazia, è chiaramente sconfessata anche dalle aride cifre: alla Camera i riconfermati sono stati il 61,3%, a fronte del 47,5% della scorsa legislatura, mentre al Senato è ancora più alta la percentuale: il 66,4% sono stati i riconfermati, a fronte del 41% della scorsa legislatura, dove pure il sistema elettorale era sempre predeterminato ma qualche minima libertà la consentiva. Quindi, viene espressa una classe politica che ha evidentemente lo sguardo corto e che pensa solo alle elezioni politiche successive, per garantirsi lo status, principalmente economico. Una classe politica sostanzialmente omogenea, che nella composizione delle liste individua spesso senza alcun ritegno familiari diretti e affini. Non parliamo poi della rappresentanza femminile che, se viene individuata con i criteri che abbiamo visto, è meglio non averla.

Democrazia: ma quanto costi?
Bisogna allora dare spazio al merito e alle capacità individuali e quello che realmente conta è l’educazione alla democrazia. Nello scenario che abbiamo di fronte si pone l’inevitabile tema: riformismo o rivoluzione? Il problema sta diventando fortemente economico. Infatti, le due rivoluzioni che hanno dato origine all’evo contemporaneo – quella americana e quella francese – sono entrambe sorte per problemi economici. La rivoluzione americana del 1778, scoppiò al grido di «No taxation, without representation». E come, e da chi, si possono sentire rappresentati i migliaia di giovani laureati che ogni mese produciamo nelle nostre università, a fronte dell’inesistenza di sbocchi occupazionali nei prossimi anni? Oppure essendo sottopagati e con prospettive di miglioramento remote, costretti ad assistere a una corte di Versailles, rappresentata dal mondo politico, che si estende oggi allo stesso modo nelle regioni che assorbono risorse in modo assolutamente ingiustificato rispetto alle prestazioni erogate? Anche lo scoppio della Rivoluzione francese ha avuto ragioni economiche e fiscali. A Versailles, Luigi XIV aveva riunito la nobiltà soprattutto per controllarla ed evitare le fronde, ma due secoli dopo il costo era diventato eccessivo rispetto alla funzione sociale che i nobili assolvevano. Lo scontro nei prossimi anni sarà dunque tra chi i soldi allo Stato li dà e chi, invece, dallo Stato li prende. C’è un concetto importante avanzato da Robert D. Steele che prima dell’11 settembre 2001 proponeva una riforma dell’intelligence americana, avendo già compreso che essa era assolutamente incapace di fronteggiare le nuove minacce. La prima proposta era non a caso quella di ridurre i finanziamenti ai servizi segreti, perché così le organizzazioni sono costrette a rivedere il proprio funzionamento e a ottimizzare le risorse in funzione degli effettivi risultati. Tra l’altro la storia ci insegna che le burocrazie non si autoriformano mai da sole. E la burocrazia politica fa meno eccezione delle altre. Concludendo, esiste allora un rapporto tra costi della politica, selezione della classe politica e prestazioni della democrazia? Io credo di sì, ritengo che ci sia un rapporto, ma lo pongo in modo problematico. Quindi, secondo me, bisognerebbe indurre, quasi costringere, a riformarsi. E chi può farlo? A mio avviso, lo può fare solo la massa di laureati che stanno uscendo e usciranno dalle università italiane. Infatti, si tratta di generazioni senza prospettive concrete, a prescindere dalla preparazione che si trovano ad avere e della quale non sono certamente responsabili ma è frutto di un sistema che privilegia i numeri rispetto alla qualità. Sebbene complesse e incerte, si possono ipotizzare soluzioni. Gli strumenti potrebbero essere tanti: la costituzione di think tank; l’esplosione dei blog; la limitazione dei mandati alle elezioni (per i sindaci si è stabilito il numero di due ed è anche un bene, sarebbe però meglio valesse per tutti, anche perché della gran parte dei parlamentari e dei consiglieri regionali gli italiani farebbero volentieri a meno anche dopo averli visti all’opera per una sola volta: ma esprimo una semplice opinione personale); i referendum abrogativi, costringendo il legislatore a ritornare sulla norma. Per esempio, se con un referendum aboliamo la norma che prevede il numero dei consiglieri regionali o il loro appannaggio, obblighiamo a legiferare di nuovo sull’argomento. Capisco bene che è un percorso faticoso ma è pur sempre una possibilità, un’opportunità. Occorre allora portare all’interno della politica questioni di metodo e di contenuti, e non solo di appartenenza. Infatti, oggi il problema non è destra o sinistra. Sembra di vivere le parole che John Le Carrè, ne La spia che venne dal freddo, fa dire a uno dei suoi personaggi, riferendosi ai due blocchi occidentale e sovietico: «Siamo tutti uguali, sapete: ecco dove sta la beffa». L’impressione che spesso si ha è proprio questa, perché nei comportamenti concreti è così. Basta vedere come vengono votate le leggi che hanno determinato le distorsioni di cui abbiamo parlato, dal numero dei consiglieri regionali alle indennità dei parlamentari, dal finanziamento dei partiti a quelli sull’editoria Diceva Enzo Biagi: «Quando si tratta di cattive figure, noi raggiungiamo quasi sempre l’unanimità».

Collegamenti sponsorizzati


4 Commenti a “Il pozzo senza fondo della politica italiana (da Reset)”

  1. Mauro scrive:

    io penso che qundo il popolo italiano si ingoia il rospo che i politici con 36 mesi di mandato possono andare in pensione e noi con 35 anni no, mettiamoci pure a 90 gradi e aspettiamoci di tutto , perche tanto ci meritiamo; VOTATE GENTE VOTATE

  2. maria carla scrive:

    io spero sia possibile, ad esempio inondando di e-mail i siti del Quirinale e dei vari “palazzi”della politica, almeno che vengano pubblicate tutte le spese come un comune bilancio, e spero inoltre lor signori si vergognino almeno un po’ nel parlare delle pensioni dei lavoratori dipendenti.

  3. arnà scrive:

    Evidentemente è un mestiere molto remunerativo fare il politico, fosse possibile lo farebbero tutti, poi ti accorgi che tutti, compreso gli uscieri del palazzo hanno una laurea di opportunismo e incapacità, rifletti e pensi sia meglio fare l’operaio con una strminzita superiore, ma l’angoscia ti coglie diventa devastante, noti le sfumature, ti rendi conto di essere tu al servizio della politica, la sovranità sono loro, alla faccia del popolo sovrano, sono tutti dei piccoli re sole o sbaglio.

  4. Marco M. scrive:

    Salve a tutti,
    sono capitato su questo sito perchè proprio oggi ho ricevuto una email con l’invito ad andare in piazza l’8 settembre 2007 per il V-DAY indetto da Beppe Grillo (o almeno questo è quanto scritto sull’email).
    V-DAY sta per “Vaffanculo Day”, invito rivolto a tutti i nostri politici che non si vergognano (cara Maria Carla, rispondo io alla tua domanda) affatto di parlare delle nostre pensioni o quando, durante i vari comizi pre-elettorali usano frasi del tipo “Dobbiamo rimboccarci le maniche” o “Bisogna stringere la cinghia”… ma di chi parlano? Non è certo la loro cinghia che negli ultimi anni si è stretta!
    Per migliorare questo paese dovrebbero cambiare tante cose e una di queste è proprio la classe politica.
    Ma prima di tutto dovremmo cambiare noi, essere meno pecoroni e farci sentire di più.
    No so se il V-DAY potrà servire… ma esserci male non farà!
    Diciamoglielo in faccia che ci hanno stufato, loro e le loro macchine blu e tutti i loro privilegi.
    Scriviamolo sui loro manifesti: loro ne attacano 1000? E noi 1000 ne copriremo!
    Non li vogliamo più.
    E non vogliamo i loro costi.
    Se l’amministratore di un condominio ruba o semplicemente costa troppo, a fine mandato si fa una gara e si trova l’amministratore più economico che garantisce gli stessi servizi e la stessa qualità.
    Perchè non si può fare con la classe politica?
    Voglio un referendum per far ridurre ad un 1/5 lo stipendio dei politici; per fargli togliere tutti i vantaggi acquisiti, per fargli togliere le auto blu, per far si che paghino i biglietti aerei e quelli del cinema. Si pagassero il taxi o l’auto o la moto o l’autobus o la metro o, se vogliono risparmiare, non inquinare e restare in forma, la bicicletta, per andare a lavorare, come fan tutti gli impiegati e i liberi professionisti che pagano le tasse e mandano avanti questo paese.

    Voglio… vorrei, che l’8 settembre in piazza ci fosse tutto il paese compresi quei pochi (ma credo che ci siano) politici che si vergognano oggi di essere quel che sono ma che lo farebbero anche per uno stipendio minore e con meno privilegi, perchè sono italiani e credono in questo paese e perchè credono che debba essere la politica ad essere al servizio del popolo e non viceversa.

    Io ci sarò.

    8 SETTEMBRE V-DAY.
    PERCHE’ NON LI VOGLIAMO:
    PERCHE’ BISOGNA CAMBIARE.

    Marco M.

Scrivi un commento