Le loro lacrime e il nostro sangue

LACRIME e sangue. Eccola qua la sintesi dell’attuale momento politico. Da un lato i lucciconi registrati in congressi di partito che non porteranno certamente nulla di buono per i cittadini e dall’altro una pressione fiscale vampiresca, che è aumentata in un botto di due punti percentuali sul Pil. Da un lato, una classe politica cinica e bara (che con la massima naturalezza colloca nelle liste bloccate mogli, fratelli e cognati) propina per rivoluzionario progetto politico la matematica fusione di due oligarchie senza nessuna idea, a cominciare dallo schieramento in Europa. Dall’altro, la stessa classe parlamentare e governativa, che in buona parte approfitta anche delle somme dovute ai propri assistenti, non ha nessuna capacità di previsione economica e fiscale, tanto che un mese vara una finanziaria con 55 nuove tasse e quello successivo registra impreviste entrate fiscali da record.

SULL’UTILIZZAZIONE dell’ormai mitico «tesoretto», ci si sta sbizzarrendo e i più vorrebbero la botte piena e la moglie ubriaca: riduciamo il debito pubblico e contemporaneamente sosteniamo lo sviluppo. Il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha detto chiaramente qual è la priorità: riduciamo la spesa pubblica, che ha raggiunto il massimo storico, e poi riduciamo le tasse. Una domanda sorge spontanea: com’è possibile che nel momento in cui si tocca lo zenit, settori strategici e fondamentali come la sanità, gli enti locali e l’istruzione debbano invece registrare tagli, pur necessari, che riducono di molto la loro funzione?
La spesa pubblica dove va a finire? Ce lo dovrebbe spiegare una classe politica che viene pagata per occuparsi dei cittadini e che invece preferisce i comodi confronti nei salotti televisivi e le comparsate alla radio da Fiorello. Ovattati nelle confortevoli stanze del potere, con stipendi e privilegi che non hanno confronti in nessun’altra democrazia al mondo, i rappresentanti del popolo sovrano sono gli attori virtuali di una grande rappresentazione mediatica. Infatti, è di fronte a tutti la spettacolarizzazione della sfera pubblica, con una forza sempre più pervasiva dei media, che mantengono in piedi un sistema politico staccato dalla gente. Non a caso, il geniale pubblicitario Jacques Séguéla conduce il discorso alle estreme conseguenze, quando lucidamente sostiene che «un ministro è una pagina di pubblicità. E’ lì per offrire una speranza. Sta al Governo mandare avanti la bottega». E qui casca l’asino.

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1 Commento a “Le loro lacrime e il nostro sangue”

  1. Andreas scrive:

    C’è un elemento che mi pare continui a sfuggire alle analisi sui costi della politica, sul comportamento dell’establishment, sul funzionamento della nostra economia, sulla questione dell’illegalità diffusa, dello scadimento dei servizi pubblici e della scarsa mobilità sociale.
    Tali problemi vengono spesso trattati separatamente; nessuno mette in risalto il fatto che si tratta di un “sistema paese”. Agli italiani viene raccontata la favola di una realtà inserita nel sistema capitalistico occidentale; qualcuno si azzarda a dire che, tanto nel passato quanto nel presente, si ritrovano elementi di “sovietismo”, che l’Italia è stata la repubblica più “socialista” dell’occidente, senza però mettere in dubbio il legame con quello che è stato il “blocco occidentale” a livello culturale.

    Ma la realtà è quella di un sistema che basa la propria esistenza sulla spartizione di denaro pubblico fra caste e tribù sotto forma di privilegio, anziché sul must dell’incremento della ricchezza attraverso la produzione e la sua relativa redistribuzione, secondo parametri che dovrebbero ricollocarsi a seconda dell’approccio riformista o conservatore degli esecutivi.
    E’ in quest’ordine di idee che poi si spiega il fatto che qualunque tipo di meccanismo decisionale riguardante anche la sfera più privata, dal ruolo del fisco fino alle questioni della famiglia, passi attraverso la politica, che in questo modo acquista grande centralità nella determinazione dei modelli di comportamento, mentre rimane marginale nelle grandi scelte a livello strategico e di medio-lungo periodo, determinate in buona misura dai “poteri forti”. Se ciò può essere caratteristica comune ai paesi a capitalismo avanzato, quel che fa la differenza sono le forme e la natura dei meccanismi di formazione (o meglio, conservazione) delle élites e le dinamiche dei processi decisionali.
    Le istanze di coloro che sono o entrano a far parte del sistema, hanno immediata rappresentazione politica attraverso dinamiche e meccanismi di tipo clientelare, che, specie nel Mezzogiorno, richiamano alla mente metodi di governo della cosa pubblica sedimentati nel tempo, quasi antropologici, che niente hanno a che vedere con un sistema liberale, quanto piuttosto con le antiche forme di comparatico e di feudalesimo. Allo stesso tempo, a livello macroeconomico, le scelte vengono dettate da quel nucleo statale o parastatale di grandi imprese e di aggregati (Eni, Enel, Intesa-San Paolo, Mediobanca), che basano il loro potere nell’essere aziende pubbliche o operanti in regime di monopolio.
    L’illegalità, o la latitanza e l’insufficienza dell’azione legislativa e giudiziaria dello Stato, si colloca tanto a livello locale, quanto a livello di scelte strategiche, ponendosi come il vero elemento caratterizzante del modus vivendi della Repubblica.
    Il comportamento del potere giudiziario e la presenza/assenza di leggi serve tanto nelle lotte fra gruppi dirigenti a livello locale, in cui l’inchiesta della procura è spesso il modo per togliere di mezzo l’avversario, quanto nell’assegnazione del pacchetto di maggioranza di Telecom.
    Tutto torna: il blocco degli ascensori sociali, quello del sistema mediatico e dei relativi processi di circolazione delle idee, l’arroganza di un establishment sempre uguale a se stesso, composto tanto a livello centrale quanto a quello locale da un immutabile gruppo di famiglie; lo stato di abbandono delle strutture pubbliche, necessariamente inefficienti, perchè deputate all’erogazione di forme di sussistenza clientelari anzichè di servizi ai cittadini, fino alla frustrazione dei pochi elementi più avanzati dell’imprenditoria nostrana, che fanno fatica a piegarsi alla logica speculativa su cui si fonda il sistema.

    La grande occasione persa è stata quella del periodo 92-94. Il cambiamento del contesto internazionale, il crollo del sistema attraverso il golpe mediatico-giudiziario, il punto di snodo in fatto di lotta alla mafia, avrebbero dovuto rappresentare l’occasione e il contesto migliore per una riscrittura del contratto sociale e per la fondazione di una Repubblica davvero moderna e occidentale.
    Allo stato attuale, al di là della necessità di ottemperare agli obblighi comunitari che ci tiene a galla, non vedo presupposti per il concretizzarsi di una discontinuità. Al contrario, l’avanzamento del processo di reciproco riconoscimento tra le coalizioni e dei relativi gruppi di potere, fa presagire una saldatura capace di riproiettare il paese indietro di vent’anni, nel provincialismo del sistema di potere consociativo che ha covato sotto le macerie dei vecchi partiti, alimentato da una finzione di dialettica politica e l’affermazione del pensiero unico come presupposti.

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