Tagliare e crescere. la scuola italiana si salva soltanto così

CHE IN ITALIA la scuola e l’università siano un problema ce ne accorgiamo solo quando ce lo vengono a dire gli altri. E’ successo anche stavolta con il recente rapporto dell’Ocse, che sottolinea che il numero dei nostri laureati è superiore solo alla Turchia. Se poi valutassimo anche la qualità, le cose forse andrebbero anche peggio.
Ha quindi ragione il Presidente di Confindustria Luca di Montezemolo quando ricorda che, più che aumentare
il numero degli atenei, occorre puntare sui centri di eccellenza per premiare la meritocrazia, la concorrenza e chi produce. Non sono d’accordo col ministro Fioroni quando sostiene che occorre investire di più. Non è così: infatti spendiamo molto e produciamo poco e i tagli sul numero dei docenti, che sembrerebbero previsti nella finanziaria, sono, mi dispiace dirlo, più che opportuni. E, come la riduzione dei parlamentari peraltro neanche approvata, non può partire tra qualche lustro ma subito. Altro che inserimento di altri precari.
Credo, per esempio, che in nessuna classe delle scuole elementari d’Europa ci sia il numero di insegnanti che abbiamo noi: sembrano degli istituti superiori. E i risultati non sono propriamente brillanti. Tra l’altro, una recente indagine, ha dimostrato che la capacità di comprensione della lettura dei giovani quindicenni italiani sia tra le minori di tutti i Paesi dell’Ocse. La verità è che è fondamentale la qualità e non la quantità dell’istruzione, che si costruisce soprattutto investendo sugli insegnanti e sui professori, i quali, ridotti di numero, vanno prima formati, poi retribuiti di conseguenza e soprattutto ne va verificato il lavoro. L’introduzione della laurea breve aumenta certamente i laureati ma con quale preparazione e prospettive? La realtà è che la scuola e l’università non sono mai state politicamente centrali nel nostro Paese, in quanto, al massimo, si è pensato a posti di lavoro sempre meno retribuiti e qualificati. Infine, un dato banale: all’aumento dei titoli di studio dovrebbe corrispondere la crescita civile ed economica dei territori. Nulla di più lontano dalla realtà.
L’esempio della Calabria è più che eloquente. Secondo l’Istat nel 2001, la Calabria era la terza regione d’Italia come numero di laureati. Ma questo dato non ha inciso, né sullo sviluppo economico né sulla crescita democratica. Questo dimostra come il titolo di studio rappresenti alla fine solo un’alternativa alla mancanza di occupazione. Parlando in generale, che succederà quando tutte le migliaia di laureati che ogni anno vengono prodotti dalle sempre più numerose sedi universitarie, si renderanno conto di avere difficoltà a fare anche i cassieri nei supermercati?

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