Citando Al Jazeera, imam consiglia alle bellissime il Niqab (solo gli occhi scoperti)

Stimolato dalle polemiche sul velo ho fatto un viaggio nei Centri culturali islamici dei centri minori. Ho visitato quelli di Casalamaggiore (Cremona), Carpi (Modena) e Colle Val D’Elsa (Siena). Riporto qui di seguito i tre articoli che raccontano questi incontri ravvicinati. Sono il frutto di una ricerca lunga e paziente che mi ha tenuto lontano dal blog per qualche tempo.

CASALMAGGIORE (CREMONA) – La regola è semplice: “Chi sa di più conduce la preghiera, gli altri aiutano”. Il Centro culturale islamico è un ex negozio di tessuti, di fianco a una macelleria halal kosovara, al numero 116 di via Azzo Porzio. Il compito di spiegare come coltivano la loro fede i cinquecento musulmani della comunità tocca a Abd Erazak Salih Eddine, marocchino, in Italia dal 1989, 42 anni, operaio di un’azienda chimica, padre di due bimbe e presidente del Centro in un periodo duro e difficile, dal 2001 al 2004. Non è stato il solo imam, tiene a precisare. Lo ha consacrato una gerarchia che si è consolidata sul campo. Non vanta titoli particolari di conoscenza teologica: “Qui nessun conduttore ha avuto una formazione esterna. Abbiamo imparato il Corano e gli Hadith (i detti del Profeta) semplicemente diventando adulti nei nostri paesi di origine. Da 1565 ani il Corano non viene cambiato. Non possiamo certo essere noi poveracci quelli che mettono in discussione la legge islamica”.
E’ venerdì. La piazza principale del paese è affollata di paesani che si aggirano fra le bancarelle della fiera di San Carlo. Gli stand etnici sono un mosaico variopinto. Entrano solo uomini. Si tolgono le scarpe, fanno le abluzioni e pregano indossando le jallaba, tuniche lunghe e colorate. Le più ricercate hanno bordi dorati. Non si vedono donne. Salih spiega che l’entrata è troppo angusta: “Se frequentassero, ci sarebbe una confusione. E anche il locale è lungo e stretto, non è adatto per creare spazi distinti”.
Per Abd Erazak il gentil sesso può lavorare fuori di casa “se non ci sono uomini estranei”. E’ consentita la presenza di “mariti, fratelli, padri e suoceri e zii”. Punto. I capelli debbono essere coperti dal velo, lo hijab. Ma sono previste eccezioni. L’imam cita una trasmissione di Al Jazeera: “Il teologo Yusuf Qaradawi (ndr. il faro spirituale dei Fratelli Musulmani) ha detto che l’estrema bellezza di una femmina può spingere un malintenzionato a fare del male a lei e, di conseguenza, alla sua famiglia. In quel caso, ha sostenuto, è consigliato quello che noi marocchini chiamiamo himar (ndr. il niqab, solo una finestrella libera per gli occhi)”.
L’ex presidente non è esattamente un modernista, anche se rivendica apertura e tolleranza: “I nostri rapporti con il Comune sono buoni e lucidi (leggi trasparenti). Chiunque può entrare qui e guardare tutto, anche la preghiera”. Il Municipio ha sempre collaborato. Il Centro è stato ospitato in successione dalla Casa dell’accoglienza e dalla biblioteca comunale, trasformata ora in museo. L’ex negozio di tessuti è in affitto e costa 400 euro al mese. I musulmani di Casalmaggiore si tassano per pagare il canone e anche per aiutare i fratelli che perdono il lavoro. L’imam non ha dubbi: “L’Islam è anche economia e deve garantire una vita serena”.
Assieme all’attuale conduttore della preghiera snocciola una lista di problemi. L’elenco fa parte dell’accordo in base al quale sono stato ammesso al colloquio (eccezionalmente senza abluzione). I musulmani di Casalmaggiore, moltissimi operai, qualche contadino, vorrebbero un terreno per costruirci una vera moschea. Chiederebbero anche un prestito, quattrini che restituirebbero in un lasso ragionevole di tempo. Abd Erazak illustra il substrato religioso dell’istanza: “La nostra fede ci impedisce di contrarre mutui con le banche. Possiamo pagare solo in contanti e i nostri stipendi sono troppo bassi”. Il secondo posto è riservato al permesso di non lavorare durante le feste islamiche: “Per noi sono fondamentali due giorni all’anno. L’Aid Al Fitr, alla fine del Ramadan, e l’Aid Al Adha, il giorno del sacrificio, a conclusione del mese del pellegrinaggio alla Mecca”. La seconda ricorrenza trascina con sé la richiesta di un posticino nell’ex macello per poter uccidere gli agnelli secondo dettami halal, ossia facendo defluire tutto il sangue. Viene per ultimo il cibo nelle scuole. L’imam ha adottato una misura preventiva: “La mia bimba più grande sa già che non deve mangiare carne”.
Abd Erazak ha un ultimo sassolino nella scarpa. I mass media gli paiono prevenuti: “Per il Corano è assurdo minacciare la vita di un altro. Perché, se l’attentatore è musulmano, si precisa sempre la sua fede e per il responsabile dell’episodio avvenuto durante le Olimpiadi di Atlanta è stato citato solo il nome e cognome?”.

CARPI – La moschea è al primo piano, proprio di fronte alla palestra “Master”, curiosa convivenza fra un tempio dedicato al culto del corpo e uno che persegue il miglioramento dell’anima. “Vada pure dai testimoni di Geova musulmani”, si era congedato con un sorriso Zahir Anium, pachistano, mediatore culturale della Cisl da sei anni, ex giornalista in patria e ora responsabile di produzione in una azienda nel distretto tessile. La comunità dei pachistani è in ebollizione per l’arresto del barbiere Ahmed Pervaz, 36 anni, sospettato di aver riciclato enormi somme di denaro, forse collegate a traffici di stupefacenti. Ma Zahir assolve senza esitazioni la moschea di via Unione Sovietica: “Il barbiere era sciita, quelli di via Unione Sovietica sono sunniti del movimento Tablighi Al Jamat (“Gruppo per il proselitismo”). Pervaz non andava a pregare lì”.
I 1500 pachistani di Carpi riproducono come uno specchio le segmentazioni della madrepatria. Tablighi Al Jamat è un movimento militante nato negli anni venti per convertire gli indù sincretisti alla autentica fede musulmana. L’ islamista francese Bruno Etienne lo colloca nella grande famiglia neotradizionalista dei “Fratelli musulmani”. La regola originaria prevedeva che gli aderenti dedicassero al prossimo almeno due ore e mezzo al giorno e che viaggiassero molto di frequente per diffondere la fede e per studiarla.
Quando accetta di parlare, dopo il ciclo dei riti del venerdì, l’imam Salem Razad, 38 anni, copricapo e tunica bianca, barba folta, arrivato in Italia nel giugno del 1995, tornitore in un’azienda di Rio Saliceto, ha una sola preoccupazione, i mass media italiani: “Non hanno precisato che siamo divisi in tanti gruppi. Gli sciiti vanno a pregare a San Marino, quando la Polisportiva mette a disposizione i locali. Pervaz lo conoscevo di vista, ma qui non è mai venuto. Sa che cosa mi hanno chiesto i compagni di lavoro? Mi hanno domandato se era vero che c’era droga nella moschea! Eppure io fatico là da sei anni. Sanno chi sono. I media hanno scritto una brutta parola”.
Dopo undici anni l’imam Salem Razad è ancora prigioniero di un linguaggio povero, elementare. Viene da Mandibhauddin, “una città grande come Modena”, precisa con un gesto largo e vago. Il suo clan comprende la moglie, un fratello e qualche cugino. Niente figli: “Dopo il lavoro sono sempre qui, in moschea, al venerdì ci sono 150 fratelli. Ho una sola regola, stare sotto l’ ala di Dio. Se non sbaglio anche i cristiani e gli ebrei dovrebbero comportarsi così”. Predica nella sua lingua, l’urdu, ma traduce nel suo precario italiano per i marocchini e per i tunisini. E l’arabo classico, la lingua del Corano? “Lo leggo, ma non capisco tutte le parole”.
Non ha grandi rapporti con realtà esterne. Della neotradizionalista Ucoii, l’Unione delle Comunità ed organizzazioni islamiche in Italia nella quale militano molti ex Fratelli Musulmani, conosce appena il nome e la città del presidente: “Ci siamo visti a una manifestazione”. Rivendica un rapporto di “profondo rispetto con il prete di Sant’ Antonio Mercadero”, dove ha abitato per sette anni e mezzo. Non ha dialoghi con i parroci locali. Giustifica il distacco invocando lo schermo opaco della lingua. Dopo dieci anni in Italia? “Ho difficoltà, sono un tornitore, conosco bene solo i vocaboli che uso in fabbrica. Parlare di religione è molto più difficile”.
Non si vedono donne nello stanzone della preghiera. Salem giura che possono frequentare, occupando però nella grande sala uno spazio distinto da quello degli uomini. Sua moglie gira velata perché “Lo richiede la religione”. Si ferma e si corregge prontamente: “Dipende solo da lei se le va o meno di metterlo”.
Il fulcro del suo insegnamento è la parola “Dawa”. Significa “appello”, chiamata alla vera fede. La “Dawa” si applica alle “persone brutte”. Sono quelle che “bevono troppo” e “toccano le donne”, i musulmani eccessivamente dipendenti dalle tv secolarizzate. Non gli piacciono i tanti italiani che “non seguono la religione, una fede che, in tanti punti, è simile alla nostra”. Rifiuta la violenza, la scelta dei kamikaze: “Sono persone che non capiscono bene quello che dice il Corano, io condivido a fatica l’uno per cento delle loro convinzioni. Giornalista, ti rivolgo una dawa. Scrivi la verità”.

COLLE VAL D’ELSA (SIENA) – L’uomo che sogna una grande moschea e un minareto alto otto metri e mezzo nelle dolci colline toscane ha l’aria del tranquillo professore di campagna. Si chiama Feras Jabareen, ha 37 anni, è padre di tre figli, fa il fisioterapista in una clinica privata di Firenze, Villa Botticelli, e aveva un nonno comunista di Nazareth. La moglie Ranja, come la regina della Giordania, si alterna con Najma Gouhai, 31, marocchina, assistente sanitaria della Asl, tre figlie, nella conduzione della preghiera delle donne a Poggibonsi. Feras sorride sgranando il “suphan”, il rosario degli arabi, quando rivela che proprio da quell’ avo che “ha fondato il partito comunista a Nazareth”, lo scrittore Mohammed Youssef Shraidi, autore di “La calda estate della Palestina”, ha ereditato l’ impegno della fede. “Lui era un praticante musulmano. Sono associazioni non semplici da spiegare qui, in Occidente”, si schermisce. Ma ribadisce il concetto con un particolare decisivo: “Morì durante lo Haji, il pellegrinaggio alla Mecca”.
Feras è arrivato in Italia da Afula, una cittadina a nord di Tel Aviv, nel 1993. E’ un palestinese con regolare passaporto israeliano. La tradizione religiosa non l’ha mai abbandonata. “Eravamo un gruppo di studenti. Il rettore dell’Università Piero Tosi ci concesse di pregare per un’ora, dalle tredici alle quattordici, nella sala da gioco della Casa dello studente di via del Porrione”. Il Centro Culturale Islamico di Colle, che si affaccia sulla centralissima piazza Bartolomeo Scala, nasce un anno dopo, in un ex panetteria con laboratorio che ora costa 500 euro al mese di affitto, quattrini pagati dai membri della comunità islamica di tasca propria. Modesto, Feras dichiara una conoscenza “da autodidatta” del Corano e della teologia, il “fikr” (il pensiero): “L’Imam qui è scelto dalla comunità, a differenza di quello che succede in alcuni paesi arabi nei quali deve frequentare scuole teologiche per quattro anni”. E’ stato eletto presidente per la prima volta nel 1999, quando il Centro è diventato una regolare onlus con tanto di statuto, e confermato nel 2005, 86 preferenze su 135 votanti. Il risultato più recente è stato certificato dalla presidente del consiglio comunale Serenella Pallecchi. Feras ci tiene a ricordare che alle operazioni, dalle 10 alle 19, hanno assistito due agenti della Digos.
Mentre parliamo, entrano e pregano giovani di aspetto occidentale, nessuna barba folta, bomber e jeans. E’ un luogo di preghiera islamica particolare. Le donne italiane entrano senza velo. L’addetta stampa è una connazionale laica. L’Ucoii, l’associazione neotradizionalista che le cui radici affondano nel movimento dei “Fratelli Musulmani”, all’inizio ha aiutato economicamente il gruppo di Colle Val D’Elsa. “All’epoca eravamo pochi”, sembra quasi giustificarsi Feras, che giudica ancora “persone squisite” il presidente Dachan e il segretario Hamza Piccardo”. L’imam ha preso prontamente le distanze dalla pagina pubblicata dal nostro giornale a pagamento nella quale i bombardamenti di Israele in Libano venivano paragonati alle stragi hitleriane. Ma giudica la “reazione mediatica italiana sproporzionata quanto la risposta di Gerusalemme al rapimento dei due soldati. Tutti tacevano, con l’unica eccezione del Papa”. Si scandalizza per il silenzio sul muro che Israele sta costruendo per separarsi dai palestinesi: “Muore un popolo e nessuno ne parla. Vive in campi profughi che sarebbero rifiutati anche dai cani cresciuti in Italia”.
Era parso favorevole all’idea rivoluzionaria di affidare la conduzione della preghiera anche a Najma. Ma è stata una suggestione fugace: “Lei stessa ci ha riflettuto e ha cambiato idea. In realtà è stata una forzatura dei mass media. Il Corano affida la conduzione spirituale dei riti agli uomini. Le donne possono guidare altre donne, i bambini, possono assistere spiritualmente un malato. Nell’ebraismo e nel cattolicesimo è la stessa cosa”.
Della parità fra i sessi ha un’idea a dir poco prudente: “Le nostre femmine hanno un senso diverso del pudore. Bisognerebbe intervistarle. In Arabia e in altri paesi musulmani si scoprirebbe che considerano oppresse le occidentali perché debbono lavorare, pulire la casa, educare i figli…”. Su uno scaffale è in bella vista il trattato antidarwiniano di Harun Yahya. Si intitola “L’inganno dell’evoluzione”. Il Centro accoglie chiunque abbia curiosità di approfondire, studenti universitari di Siena, liceali, scolaresche. Feras cita con orgoglio la visita di una scuola privata americana del capoluogo. La politica di apertura e di dialogo ha dato i suoi frutti. La Fondazione del Monte dei Paschi ha confermato il finanziamento di 300 mila euro per la nuova, imponente, moschea che Oriana Fallaci avrebbe voluto minare con l’esplosivo. Il consiglio comunale ha bocciato la richiesta di referendum. I lavori dovrebbero cominciare entro la fine dell’anno.

Collegamenti sponsorizzati


Scrivi un commento

Per inviare un commento devi fare il loggin.