Ma il tempo del «non attacco» sta per scadere

LA TEORIA più articolata sul contingente militare italiano in Afganistan l’ha elaborata il sottosegretario alla difesa Lorenzo Forcieri. La regola di ingaggio numero uno è il “non attacco”. Né carne, né pesce, come al solito. Un limbo che rischia di finire presto. I talebani hanno alzato il tiro. I numeri, purtroppo, hanno il pessimo vizio di ribellarsi alle teorie. Nel solo 2006 le vittime del conflitto sempre meno strisciante sono state quattromila. Mille erano civili inermi.
Nel sud e nell’est americani, canadesi, olandesi e britannici sono impegnati ormai quasi ogni giorno in scontri a fuoco con gli studenti coranici. Nella parte meridionale della zona di competenza italiana, la provincia di Farah, il capoluogo del distretto di Bakwa è stato perso e ripreso con l’aiuto silente delle nostre unità di elite. Il convoglio del capo della polizia della città, appena nominato, è saltato su una mina. L’alto funzionario è morto assieme agli otto agenti che lo stavano scortando.
Il tempo del “non attacco” si sta esaurendo. Il 27 marzo l’ambasciatore statunitense a Roma Ronald Spogli è stato, come sempre, schietto e chiaro: “Nella Nato siamo tutti uguali, abbiamo un impegno comune ed è importante stare sullo stesso livello”. Ora il ministro della difesa Arturo Parisi ammette che un problema c’è, che la Nato non può produrre “due interventi militari diversi”. L’Italia, la Germania, la Francia e la Spagna dovranno decidere se passare il Rubicone. L’impegno a combattere deve essere accolto o respinto.
A differenza degli europei continentali, il Bel Paese ha un problema in più. Nelle Forze Armate da sempre investe meno degli altri stati. Nel 2006 il bilancio della Difesa è crollato allo 0,84 del Prodotto interno lordo. La finanziaria del 2007 lo ha riportato al livello del 2004. In quell’anno la spesa media era pari a 484 dollari per ogni contribuente, contro i 1539 degli Usa, i 784 della Gran Bretagna e i 761 della Francia. I due Predator (aerei senza pilota) promessi al contingente italiano a Herat arriveranno solo fra due mesi. Sono gli stessi che volavano nei cieli dell’Iraq e debbono essere ricondizionati. Se davvero ci riteniamo una “media potenza”, sarà il caso di comportarsi di conseguenza. I 1900 soldati schierati a Kabul e ad Herat e le migliaia di loro colleghi inviati nelle altre missioni di pace meritano questa attenzione. In caso contrario sarebbe più dignitoso (e più serio) ritirarli una volta per tutte.

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1 Commento a “Ma il tempo del «non attacco» sta per scadere”

  1. marista urru scrive:

    Questo Governo secondo me ha molte colpe, ma certo la politica estera e peggio ancora la noncuranza per le forze di polizia e per i nostri soldati, che arriva addirittura a metter oggettivamente in pericolo la vita di questi ultimi, supera ogni peggiore aspettativa, anche di chi come me era sicura che niente di buono poteva venire da tale raggruppamento di interessi discordanti.
    Spero come tutti, che nonostante la stupida incoscienza di costoro vada tutto per il meglio, che la smettano di recitare cento parti in commedia e abbiano il coraggio di ritirare i nostri militari, visto che li hanno messi in grado di non potersi efficacemente difendere, a quanto pare.

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