Iraq: violenza in calo dopo il bagno di sangue

E’ la prima volta che i miei due interpreti iracheni, entrambi sunniti di Baghdad, si concedono un filo di ottimismo. Emad sostiene che “le cose vanno un pochino meglio”. Mohammed, un ingegnere, ha infranto gli arresti domiciliari che si era autoimposto dalla fine del 2003 per il timore dei kamikaze, dei rapimenti - lampo e dei posti di blocco delle milizie sciite. Lavora con Emad a Mansour, sulla sponda opposta del Tigri rispetto al suo quartiere, l’elegante Zaiuna, ex isola felice abitata dai militari di Saddam e da una borghesia che ha perso di colpo il suo status. Tutti i giorni percorre più di tre chilometri per raggiungere l’ufficio. E non pensa più, come quattro anni fa, che gli americani siano la causa di ogni male. Le cifre sbandierate dai generali statunitensi sembrano dire, con la forza inconfutabile della matematica, che l’invio di 28.550 soldati americani arrivato a pieno regime in giugno è stato una mossa vincente. Il numero delle vittime civili è crollato. In gennaio morirono 2076 iracheni. Secondo il ministero della sanità le vittime di ottobre sono state solo 758. Nello stesso mese hanno perso la vita 36 soldati statunitensi. E’ il tributo di sangue più basso dal marzo dell’anno scorso.
David Petraeus, il comandante delle forze Usa schierate nel Paese, ha puntato sul coinvolgimento delle entità che controllano da sempre il territorio, le tribù. Nella turbolenta provincia sunnita di Al Anbar, santuari della rivolta come Ramadi e Falluja ora paiono sotto controllo. Migliaia di uomini in grado di portare armi sono stati arruolati nella polizia locale, una scelta che fino a qualche mese fa era bollata con lo stigma sociale del tradimento. Secondo il generale Joseph Fil, il comandante della piazza di Baghdad, a livello nazionale sono stati incorporati 67 mila volontari. Un capo sunnita, Abdul Sattar Buzaigh Al Rishawi, figlio di uno sceicco ucciso da Al Qaida solo perché si opponeva alla rigida regola islamica imposta dai seguaci di Bin Laden, ha dato vita a un “Consiglio per la salvezza dell’ Al Anbar” al quale hanno aderito 25 clan tribali di prima grandezza. Lo schema è stato esteso con qualche successo anche alla turbolenta e vicina provincia di Diyala. Lì sono stati reclutati perfino i guerriglieri delle “Brigate rivoluzione del 1920”.
Non tutto è filato liscio, naturalmente. Il 13 settembre Abdul Sattar è stato ucciso a Ramadi. Il testimone è passato al fratello Ahmad che ha immediatamente tentato di avviare una riconciliazione con Ammar Al Hakim, capo politico del più influente partito politico sciita, lo Sciri. Il 15 ottobre un kamikaze ha ucciso sei aderenti alla polizia tribale sunnita facendosi esplodere a un posto di blocco a Balad, ottanta chilometri a nord della capitale. L’8 novembre sono stati trucidati due alti ufficiali della polizia di Al Anbar, il colonnello Sabah Al Liheby, comandante del battaglione di pronto intervento, e il colonnello Modir Al Leheby, numero uno della caserma di Al Walid.
Nonostante i contraccolpi, il modello è stato esportato a Baghdad. I primi 160 “poliziotti tribali” sono sbarcati nel quartiere sunnita di Ghazaliya, una zona dalla quale gli sciiti sono scappati in massa. Seimila armati curdi sono stati dirottati nella capitale. Le faide che hanno lacerato l’esercito del Mahdi, la milizia dell’imam estremista Muqtada Al Sadr, hanno costretto il giovane leader spirituale sciita a ordinare in agosto una moratoria delle “attività”. In alcuni quartieri di Baghdad la popolazione ha cominciato a mostrare segni di insofferenza per gli uomini in nero fedeli all’ incendiario religioso. A Topchi in agosto e in settembre sono stati uccisi perfino due ragazzini, di nove e undici anni. Il maggiore statunitense Mark Brady, un ufficiale addetto alla “cellula” che ha il compito di stabilire rapporti con i clan tribali sciiti, misura i progressi con il numero crescente di soffiate che arrivano ai commissariati misti iracheno – statunitensi disseminati nella metropoli: “Ora molti cittadini corrono il rischio della segnalazione”. L’età dei guerriglieri del Mahdi è calata sensibilmente. Il capo di Topchi Haidar Rahim era nato nel 1989. In agosto, assieme ad altri due killer, ha ucciso una donna di nome Eman. La disgraziata è stata accusata di essere una prostituta. Per oltre un’ora i vicini non hanno avuto il coraggio di avvicinarsi al suo corpo riverso in una pozza di sangue. Qualche giorno dopo Rahim e compari hanno sistemato nuovi affittuari nella casa dell’assassinata. “Possono uccidere anche per una sim da cellulare da dieci dollari”, confida il figlio di un consigliere di quartiere ucciso il 26 settembre. Nello stesso mese il boss Rahim è stato fulminato. A Topchi diversi commercianti hanno cominciato a non pagare il pizzo per la protezione imposto dai guerriglieri del Mahdi. Il tenente colonnello David Oclander, della seconda brigata dell’82° divisione aerotrasportata statunitense, si frega metaforicamente le mani: “Stiamo lavorando con 25 sceicchi nei quartieri sciiti di Shaab e di Ur e stiamo intervistando 1200 candidati a posti semiufficiali di guardia di vicinato”. E’ il modello Al Anbar applicato alla capitale.
Joseph Fil sostiene di aver cacciato Al Qaida dalla metropoli, ma ammette che il 13 per cento della città, compresa Sadr City, è ancora controllato dalle milizie sciite. “Sarà difficile sloggiarli”, confessa, “dai ministeri e dalle strutture che controllano il petrolio e le altre fonti di energia”. I numeri sembrano sorreggere il suo ottimismo. Anche se debbono essere interpretati. L’Iraq del dopoguerra ha perso due milioni di cittadini. L’orrore del conflitto li ha spinti nei paesi vicini. Altri 2 milioni e 250 mila si sono spostati all’interno del paese. Il tradizionale melting pot di Baghdad è stravolto. Nel distretto Rashid, un’area a prevalenza sunnita, ora il 70 per cento degli abitanti è sciita. A Hurriya gli uomini del Mahdi hanno concentrato la popolazione sciita scacciata da Adil e i sunniti locali sono stati deportati in altre aree. Nell’ enclave sunnita di Ghazaliya è addirittura tornata una parvenza di vita notturna. Ad Amiriya, che in giugno fu teatro di scontri fra l’Esercito Islamico ed Al Qaida, l’ex combattente dell’Esercito Islamico Abu Abed si è trasformato in sceriffo locale e amministra una sorta di giustizia fai da te. Il primo ministro Nouri Al Maliki ha potuto concedersi il lusso di una passeggiata di mezz’ora sul lungo Tigri Abu Nawas, all’altezza degli Hotel Sheraton e Palestine. Il vero tallone di Achille della strategia statunitense ora è il suo governo. I suoi sei ministri sunniti si sono dimessi. Il partito più influente della comunità, il Fronte Iracheno per l’Accordo, chiede di contare di più nella gestione della sicurezza. Finora ha ricevuto garanzie che giudica insufficienti e non ha lasciato l’Aventino.

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