I nostri bambini

di Carlotta, 43 anni, Pisa

Mi guardo intorno e rifletto. Rifletto pensierosa sul futuro dei nostri bambini.
La loro istruzione.
I loro giochi.
Il loro verde.
Il loro benessere.
Vorrei sedermi su di una panchina con il rumore delle foglie a farmi compagnia. Vorrei sedermi ad ascoltare il fluire del fiume. Vorrei sedermi senza dover aver paura degli estranei. Senza il timore di veder salire mia figlia su uno scivolo, ormai casa di chi vuol farsi uno spinello o peggio ancora un buco.
Vorrei sedermi e sorridere al futuro di mia figlia. Saperla felice su un banco di scuola. Saperla motivata. Saperla ascoltata.
Mi ha colpito quando guardando un film mi ha detto: “Quanto vorrei avere un insegnante così mamma, che ci parla in questo modo…sono convinta che imparerei tante cose”.
Sono rimasta impietrita, attonita. Pensando alla sua scuola. Pensando ai suoi insegnanti.
E cosa potevo rispondere quando mi ha detto: “Tanto lo so che il parco giochi non lo costruiranno mai. Ci hanno fatto fare tutti i disegni e vi hanno chiamato a fare la riunione ma il nostro parco giochi non lo potremo vedere”.
Rabbia. Dolore. Sbigottimento. Verso una città che non sa cosa significa essere bambino.
Cosa posso fare? Come cittadina mi sento impotente. Come mamma mi sento piena di amarezza. Per non poter rispondere a certe domande. Per non potermi muovere di fronte a una scuola ingessata e svogliata, priva di quella passione che tanto incanta i bambini e li fa crescere curiosi.
Di fronte a una città grigia, piena di rotonde (siano mai paragonabili a quelle dei nostri cugini francesi con laghetti e giardini) tristi e decadenti, ma senza verde, senza quello che è l’anima vera di ogni luogo.
Di fronte ad uno sport messo in un angolo. Poche strutture. Magazzini. Seminterrati. Palestre non controllate. Piscine che sembrano appartenere ad un’altra epoca.

Poi guardo lontano.
Vedo asili di eccellenza a Reggio Emilia.
Vedo parchi e aree gioco piene di verde in metropoli come Milano.
Vedo palestre e piscine all’avanguardia nella vicina Livorno.

Ed è così che nasce un profondo desiderio di andar via. Una vergogna di essere cittadino senza armi. Senza identità .

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