Capriati: “Ho pensato al suicidio”.
“Chi sono io senza il tennis?”
Shriver: “Troppe attese su lei”

 
9 Ottobre 2007 Articolo di Ubaldo Scanagatta
Author mug

La ex n.1 del mondo lotta contro i propri demoni. Depressa non gioca da tre anni. Ammira Andrea Jaeger diventata suora.

Jennifer Capriati, 31 anni fatti a marzo, non si ricorda quando è stata la prima volta che ha pensato di farla finita, di uccidersi. Fra le visite ai dottori, due operazioni alla spalla e due al polso mal riuscite, la florida ragazzona figlia di un omone di Brindisi e di una hostess della Pan Am (da tempo divorziati) non ricorda neppur più quando sia cominciata la fase più acuta della sua depressione originata anche _ ma non solo _ dall’impossibilità di disputare un solo match in tre anni, dal 7 novembre 2004 (sconfitta nei quarti a Filadelfia da Vera Zvonareva). Sei volte ha provato a riprendere la racchetta in mano. Per lasciarla cadere. Per l’ex n.1 del mondo, Jennifer, è dura, durissima, come e più che per gli altri 21 milioni di americani che _ sostiene una ricerca di “Mental Health America” _ soffrono di crisi depressive.Ben poco solleva il cuore di Baby Jane, l’ex bambina prodigio, il ricordo di quando fu presentata al mondo come un vero fenomeno vivente, dacchè cominciò ad accumulare il primo dei 10 milioni di dollari poi vinti in carriera di soli premi ufficiali ancor prima del quattordicesimo compleanno, quando le consentirono di esordire nel circuito professionistico contro tutte le regole. E anche il ricordo di quando conquistò la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Barcellona a 16 anni, battendo la favorita ed olimpionica uscente Steffi Graf. Insomma n.8 del mondo a 14 anni, n.6 a 15, medaglia d’ oro a 16!Ma pare contare assai di più agli occhi, al cuore di Jennifer che si macera dentro, semmai di più l’amarezza di quei primi giorni bui, quando cominciò diciassettenne milionaria a frequentare cattive compagnie, venendo inghiottita dal gorgo della droga, subendo perfino un fermo di polizia per il furto di un anellino in un grande magazzino.Nemmeno oggi, dopo mesi e mesi di terapia e una gran quantità di medicine, sembra in grado di tirarla su di morale _ come forse potrebbe _ il ricordo della straordinaria resurrezione, quando, dopo quasi sei anni di black-out (i primi senza racchetta, gli ultimi con la racchetta ma con molte più sconfitte che vittorie, appena n.101 del mondo a fine 1998 e a 22 anni) ritrovò all’improvviso quella condizione che pareva persa per sempre per trionfare all’Australian Open del gennaio 2000. Cominciava lì una straordinaria escalation che la portava addirittura, nell’ottobre 2001, sul trono del tennis mondiale, n.1.“Ho avuto paura di quel che avrebbe pensato la gente, ancora una volta “ma di tentativi veri e propri di suicidarmi non ne ho mai fatti. So che il suicidio non è la risposta ai miei problemi. Ma certo mi sono sentita molto sola, dacchè ho smesso di giocare”.Suona come un atto di accusa anche verso l’IMG, la società di management che, grazie a Cino Marchese che la scoprì quando aveva poco più di 9 anni, l’ha tenuta sotto contratto per quasi un ventennio. Né la federazione americana, l’USTA, si è dimostrata molto più sensibile: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore” lamenta Jennifer cui nemmeno un addolorato papà Stefano (il suo primo, eterno coach riesce a restituire il sorriso). “Jennifer ha subìto il peso di troppe aspettative _ dice Pam Shriver, l’ex partner della Navratilova in centinaia di doppi vinti probabilmente alludendo proprio a Stefano _ nessuno poteva reggerlo senza ripercussioni”.“So che non raggiungerò più certe emozioni, l’oro olimpico, tre Slam vinti, 430 vittorie…ora non ho più chi mi dice che cosa devo fare, non devo rispondere sempre a qualcuno, devo trovare qualcosa che mi appassioni veramente, per me…”Jennifer è piena di ammirazione per l’energia che l’ex campionessa divenuta suora, Andrea Jaeger (un’altra enfant-prodige), mette nella sua nuova missione. “Sono ancora giovane, devo riuscire a tirarmene fuori, soprattutto con le mie forze. E magari aiutare il prossimo potrebbe diventare anche la mia missione, visto che almeno i soldi non mi mancano. Però a volte è come se tu diventassi preda dei tuoi demoni, non riesco a stare più nemmeno nella mia pelle. Ti chiedi: “Ma senza il tennis chi sono io? Ho vissuto solo per quello…Provi a farti coraggio, ma non puoi nemmeno indossare una corazza tutto il tempo”.

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15 Commenti a “Capriati: “Ho pensato al suicidio”.
“Chi sono io senza il tennis?”
Shriver: “Troppe attese su lei””

  1. marcos scrive:

    quello di jennifer è l’urlo di una bambina, gridato con ventanni di ritardo.

    non si può, non si deve sacrificare tutta la propria vita solo ad un interesse. questo, prima o poi, si trasforma in ossessione. curarsi solo di aspetti che riguardano quell’interesse, significa costruirsi solo gli strumenti necessari a coltivarlo e le difese adeguate per conservarlo.
    quando l’interesse cala in te, o scompare per i più svariati motivi, non ultimi quelli anagrafici, ti trovi senza strumenti e senza difese, in balia, prima di chiunque, poi dell’ombra peggiore di te stesso, quella che preferisci avere sempre dietro le spalle, per non doverla guardare.

    l’iperspecializzazione, talvolta, conduce anche l’uomo maturo al peggior stato di alienazione.
    l’iperspecializzazione forzata dei bambini crea turbe insanabili.

  2. Alessandro Nizegorodcew scrive:

    io quoto totalmente quanto detto da marcos.. l’iperspecializzazione è la fine di una vita che potremmo definire “normale”.. è la mancanza di “altro” fondamentale quando ci si sveglia la mattina e si va a dormire la sera.. se hai solo una cosa e poi te la tolgono.. beh il concetto mi sembra chiaro

  3. remo scrive:

    Credo non sia così semplice liquidare la vicenda di Jennifer, molto simile a quella di decine di altri bambini-prodigio, nello sport come nel cinema, che inevitabilmente diventano adulti e devono adattarsi alla nuova condizione cercando di scrollarsi di dosso il pesante fardello che li ha resi celebri.
    Si dice che l’iperspecializzazione sia un male quando le conseguenze sono queste, ed è certo una sacrosanta verità. E’ però altrettanto vero (lo ricorda Martina Navratilova nell’intervista) che senza un duro allenamento e una immersione pressoché totale nell’attività che stai svolgendo, diventa difficile emergere e ancor più mantenersi su livelli di eccellenza. Allora che fare? Io penso che, quando il successo ti coglie in quella fascia d’età nella quale per ovvi motivi l’atleta (o l’attore) non può avere la maturità per saperlo gestire al meglio, sono le persone che ti stanno intorno ad avere l’obbligo di mantenerti in contatto con la realtà. Nel caso di Jennifer, i genitori in primis ed eventualmente gli allenatori o altri. L’avranno fatto? L’avranno fatto al meglio? Io non lo so. Penso che, pure per loro, non sia stato semplice gestire la celebrità e i benefici che da questa ne derivano. Perché sulla carta siamo tutti bravi a dare consigli ma spesso, molto spesso fatichiamo a concretizzare le nostre idee e i nostri buoni propositi quando le vicende su cui si filosofeggia ci riguardano direttamente.
    Sarebbe interessante, pare ovvio, sentire direttamente da lei e magari da mamma e papà e dal resto dell’entourage in che modo è stata gestita la precocità di Jennifer. In altre parole, tanto per estremizzare; se il coach della Capriati fosse stato Alberto Castellani, forse adesso non sarebbe messa così. Ma, vien da domandarsi, sarebbe però diventata la Capriati?

  4. Stafano Grazia scrive:

    Vado contro corrente:
    allora, prima di tutto, vi sono milioni di depressi in tutto il mondo e uno solo gioca a tennis (vabbè, qualcuno di più, ma il concetto,credo, è chiaro), secondo, l’ho sentita spesso questa storia di papà Stefano ma non ho mai sentito Jennifer accusarlo ed ho invece sentito gli Evert difenderlo dalle accuse superficiali e solite quasi fossero dovute…Certo, non lo conosco-l’ho visto solo una volta passare su un kart da golf a Saddlebrook dove i Capriati risiedono- e può anche darsi che sia un mostro, ma sicuramente non ha mai abusato della figlia, non l’ha mai trattata male o almeno noi non lo sappiamo, non ha fatto scenate in campo, le è sempre stato accanto nei momenti difficili, non è insomma un Jim Pierce (che comunque con Mary ha fatto pace) o un Dokic e non è nemmeno un Richard williams, ottimo padre probabilmente ma lui si un pochino invadente…la sua unica colpa,di Stefano, è stata quella di aver accettato camionate di soldi quando sua figlia aveva 12-13 anni e vorrei vedere in quanti di quelli che lo criticano le avrebbero rifiutate…Anzi,no,di colpe ne ha un altra, gravissima agli occhi del Sistema: non era un tecnico, non era un vero coach, era solo un genitore e come tanti prima e dopo di lui ha dimostrato che tutto sommato non è poi così importante un coach per tirare fuori un campione (in realtà poi la Capriati è un prodotto di Jim Evert, credo)…
    L’unica cosa che io potrei rimproverare ai Capriati e a quelli come lui è l’aver “investito” nella figlia…ma non siamo troppo ipocriti: ti danno qualche milione di dollari e tu cosa fai? No grazie, voglio continuare a fare il giardiniere, l’elettricista, il magazziniere a Tuscaloosa o a Riverside…
    Detto ciò, auguro tutto il bene posibile a Jennifer e che faccia seguire alle parole sulla Jaeger qualcosa di concreto: da quel che ho sentito dire, non la vedo come suora ma ci sono tanti modi per fare del bene o per sentirsi di nuovo vivi ed utili e with a little help from her friends you can really do it if you really want (due citazioni al prezzo di una per marcos)
    Quello che voglio dire è che si tira la croce addosso ai Capriati e invece si esaltava la Seles ma le storie sono alla fine simili…solo che sono diverse Jennifer e Monica.

  5. roberto scrive:

    Tutto giusto e tutto vero quanto voi dite, marcos e Ale. La domanda a questo punto è: è ancora possibile, nel tennis di oggi, così competitivo, è ancora possibile riuscire ad emergere senza dare il 100% di se stessi alla sola attività agonistica?

  6. thomas yancey scrive:

    Una volta un uomo mi disse: “Non c’è possibilità di sapere cos’è veramente una persona, cosa potrebbe fare davvero se ne avesse la possibilità. Tentiamo sempre di conoscere chi siamo. Io stesso mi sono scritto molte lettere. Te ne leggo una”.
    “Sono qui. Anni, decenni, millenni che cerco di lasciare una traccia immortale. Ma la fantasia si prosciuga ogni volta. Eppure ne ho tanta per inventarmi torture, malinconie, angosce.
    Qualche centinaio di dolori fa, una donna con la quale ho vissuto mi disse che se avessi provato a trascrivere, in parole o in musica, gli urli di catastrofe che riuscivo a percepire anche in una camera afona, allora forse…
    Allora forse sarei stato un artista.
    Eppure, ogni qualvolta tento, l’immaginazione si ritrae. Come un’onda che si ritira lasciando soltanto la sabbia scura. Come una mosca che si trasforma in ragno non appena il ragno vuol diventare mosca.
    Proprio così.
    Il suicidio ripugna sempre. Una verità, fra le innumerevoli che l’essere umano ha scoperto nel suo cammino in questo mondo, dove scorrazzano al gran galoppo i cavalli dell’Apocalisse, dove lebbra e gelo sono all’angolo, a piagare la fronte dei fiori.
    Verità autentiche. Assolute. Perfette. Perché trasformabili, eppure immutabili, eterne. Come le verità del Papa, come quelle di Abramo Lincoln.
    Ho trovato questa gemma senza fatica, devo confessare. Il suo creatore l’ha partorita per smascherare un millantatore molto accreditato alla Banca dell’Arte. Stoccata davvero azzeccata. Stilisticamente impeccabile. D’intelligenza superba. Ma con un preciso scopo, peraltro ottimamente raggiunto.
    Senza quell’obiettivo, di questa florida verità rimarrebbe solo lo scheletro agghindato a festa. Come di tutte le verità. Anche della mia, in questo momento.
    Quella verità mi infastidisce. Vorrei suicidarmi in pace, senza dover caricarmi anche del peso della ripugnanza.
    Così una traccia la lascerei. Mortale, magari, ma pur sempre una traccia.
    O no?
    Una volta mi è stato detto che sono uno psicotico, perché vivo nel terrore del crollo, della catastrofe imminente. Questo è un inganno. In realtà il crollo di cui io ho paura è già avvenuto. E allora, perché nessuno, neanche coloro che avrebbero potuto e forse dovuto aiutarmi, mi ha mai detto che non avevo motivo di essere angosciato, dato che quello che non dovevo, non volevo perdere, l’avevo invece già perduto? Perché hanno lasciato che mi dilaniassi nella sensazione della catastrofe perenne, che mi sentissi sempre più irrimediabilmente e completamente fottuto?
    Perché io sono me stesso, e in ciò ha origine la mia condanna: io sono solo.
    E non ho speranze, in quanto sono recidivo. Ho cercato di affermare ch’io consisto, che ho una dottrina, una filosofia interiore. Ma ciò non è mai stato condiviso da alcuno. Io sono un uomo che cerca di affermare se stesso? Dunque mi si giudica un egoista, un individuo legato esclusivamente a sé medesimo, un essere da cui stare alla larga. Io sono un utopista? Pertanto mi si reputa un declassato.
    Mi è stato negato con molta durezza il diritto ad esistere come me stesso. Mi sono ribellato, talvolta con isteria. Ma il rifiuto ha continuato a permanere. Perché io persistevo a reclamare qualcuno, qualcosa che mi comprendesse, mi accogliesse. In cambio ho ricevuto la punizione di essere privato dei miei beni e allontanato dalla società umana, con un editto che decretava la mia perniciosa inconsistenza. Pertanto, io non faccio parte di nessuna comunità, di nessun gruppo. Nessun luogo, nulla mi accoglie.
    Io sono condannato a vagare fino alla morte”.

  7. Nikolik scrive:

    Il commento che volevo scrivere io lo ha scritto, ancora una volta, Marcos, con il quale concordo in pieno.

  8. Ubaldo Scanagatta scrive:

    Nikolik ho risposto alla tua giusta osservazione sulla categoria genitori e figli. ciao

  9. Luigi Ansaloni scrive:

    Non c’è nulla di strano a pensare al suicidio, specie in una situazione come quella della Capriati. L’uomo molto spesso pensa di farla finita senza la reale intenzione di farlo per davvero, ma per il semplice fatto che il pensiero suicida è torbido, e come tutte le cose torbide nasconde un qualcosa di affascinante.

  10. sara casini scrive:

    ho sempre sognato che i miei giocatori/trici preferite non si ritirassero mai, ho sempre sperato che riuscissero a battere 6/0 6/0 il tempo
    e senza tempo continuassero a giocare i loro match piu’ belli
    sui campi da tennis come se quella fosse la loro vita, la loro casa,
    come se fossero nati solo farci emozionare con le lore
    traiettorie irrepetibili e per farci applaudire le loro gesta
    come ricompensa al loro talento.

    jennifer era dopo la divina seles, la giocatrice che mi divertiva di piu’,
    un diamante grezzo ma purissimo con le stimmate della campionessa, insomma,
    una predestinata.

    Ho sempre pensato che la droga fosse entrata nella sua vita
    come un gioco-ribellione alla sua condizione di privilegiata, a
    una routine del lusso che non doveva,evidentemente,
    ritenere abbastanza appagante;
    aveva scelto di percorrere una strada pericolosa, finendo
    per spingersi troppo oltre,
    nella speranza, forse, di sentirsi teenagers come gli altri.

    Mi aveva impressionato molto la sua compostezza al ritorno sul circuito,
    l’assoluta serenita’ con cui aveva esultato in australia dopo
    la sua prima vittoria in uno slam, segno pensavo, di una maturita’ finalmente raggiunta, di un firmato armistizio con i suoi demoni.

    La sua condizione attuale è indecifrabile per chi, come noi,
    non la conosce privatamente ma sono convinta che non possa di certo legarsi
    solo al tennis;
    La depressione è una malattia,
    quali ne siano le cause profonde lo puo’ sapere forse solo jennifer;
    mi limito a dire
    che non basta nella vita avere buoni maestri
    per evitare di percorrere certe strade; i genitori contano e non contano quando si è molto giovani,
    conta molto di piu’ scegliere buoni amici, sapere di poter contare su qualcuno che ti voglia bene per quello che sei non per i soldi che hai in banca ; conta non prendere troppo sul serio il proprio talento
    perchè ci sono mille altri campi in cui non si è numeri 1
    ma in cui vale cmq la pena investire
    il proprio tempo e il proprio interesse.
    Auguri jennifer!!

    p.s condivido in pieno il post di gabri ma il confronto tra i genitori seles e i capriati è paragonabile a quello tra monsieur de coubertin e gli ultrà della curva sud:)

  11. john john scrive:

    un po’ off topic ma non troppo visti gli infortuni della capriati: si moltiplicano gli infortuni alla spalla; anche per i non professionisti; l’infiammazione acuta della cuffia rotatoria è ormai come il gomito del tennista; sarei felice se ubaldo o chi per lui spiegasse l’origine del male e soprattutto le terapie per uscirne e la prevenzione per non ricaderci; se in questo blog ci sono come credo anche delle racchette più o meno abili credo possa essere di grande interesse, ringrazio in anticipo

  12. Stefano Grazia scrive:

    sara, vedo che son riusciti a correggere il nome (avevo postato col nome di mia moglie perchè a casa usiamo spesso lo stesso computer dimenticandoci di modificare il nome)…si, i genitori di capriati e Seles saranno anche diversi anche se è vero che la Seles 17enne era insopportabilmente leziosa a dimostrazione (vedi anche Agassi) che poi si matura molto e non bisogna aver fretta di giudicarli troppo precipitosamente, i nostri beneamati campioncini…dicevo, sarà anche vero, ma volevo dire quello che hai detto anche tu, e comunque a parte il fatto di aver investito carriera e futuro sulla figlia ED ESSERE I PRIMI AD ESSERCI RIUSCITI (e con l’aggravante di aver indicato la via a tutti gli altri), io di cose cattive su Stefano Capriati non ne ho mai lette, tanto è vero che Jennifer se l’è tenuto anche dopo, come allenatore, a differenza per es di Dokic e Pierce…

  13. mauro scrive:

    Ho un ricordo molto tenero di Jennifer Capriati. Se ricordo bene correva l’anno 1989 quando la vidi al Circolo Tennis Firenze alle Cascine vincere il torneo juniores battendo Francesca Romano in tre set. Vinse il primo ed il terzo set dopo aver perso il secondo al tiebreak contro l’italiana che gli alzava i pallonetti per evitare le tremende accelerazioni di rovescio dell’americana. Aveva 13 anni (contro i 18 dell’azzurra) ed era a Firenze seguita come un’ombra dalla madre, una bella signora bionda. La incontrai il giorno prima della finale mentre seguiva sui gradoni del campo n.2 mentre faceva il tifo per il nostro Nicola Bruno (semifinalista nel torneo maschile). In quei tempi io ero molto depresso per via di una delusione amorosa e vedere questa bimba giocare un grandissimo tennis mi rinfrancò molto. Mi dissi fra me e me: “Questa ha sangue italiano, si chiama Capriati, sarebbe da naturalizzare”. Poi diventò la campionessa che tutti conoscevamo, ma io quei due pomeriggi alle Cascine non me li scorderò mai più.

  14. Nikolik scrive:

    Trovo molto interessante la domanda che ha posto Roberto e penso che gli dobbiamo una risposta, ognuno di noi nsecondo la sua testa, ovvio.
    E’ ancora possibile, nel tennis di oggi, così competitivo, è ancora possibile riuscire ad emergere senza dare il 100% di se stessi alla sola attività agonistica?
    No, Roberto, no, purtroppo no, purtroppo hai ragione tu, non è posssibile.
    Infatti, io sono sempre stato comprensivo nei confronti di quei nostri tennisti italiani che, entrati nei primi 100, cercano anche, dopo anni di sacrifici e con l’infanzia e l’adolescenza trascorsa a Batumi e Telavi, di divertirsi un poco.
    Non entreranno tra i primi 10, ma sono felice per loro.
    Ma ne abbiamo già parlato, quando ho improvvisato il finto messaggio di Volandri.

  15. remo scrive:

    Solo per chiarire che nemmeno io avevo mai letto o sentito dire che Stefano Capriati (o la moglie, o entrambi) si è comportato da padre-padrone nei confronti di Jennifer! Infatti mi sono posto domande alle quali credo nessuno, tranne i diretti interessati, potranno dare risposte esaustive. E forse nemmeno loro sapranno darle se, come credo, si sono comportati a suo tempo secondo coscienza. Poi, è ovvio, trovo del tutto condivisibile l’apertura del post di Thomas Yancey così come l’appunto precedente di Stefano Grazia: è molto difficile capire cosa potrebbe fare davvero una persona se ne avesse la possibilità ed è pur vero, come peraltro ricordavo, che la filosofia è molto più facile applicarla alle vicende altrui. Quando invece succedono a noi, le cose, chissà perché spesso ci comportiamo in modo diverso. Gestire all’improvviso, o quasi, un animale subdolo qual è la celebrità (e i soldi che ne derivano) richiede un insieme di caratteristiche che pochi, pochissimi possiedono.
    Infine, altro animale subdolo, la depressione è tale perché spesso ingiustificata, almeno agli occhi estranei di chi ci circonda. Qualche giorno fa, intervistando Alessandro Duran (campione italiano, europeo e mondiale dei pesi welter di pugilato), proprio lui - che in apparenza depresso non è - mi ricordava, rispondendo alla mia domanda su quale fosse stato il momento più difficile della sua lunga carriera, che il momento più duro è stato alzarsi dal letto il mattino dopo l’ultimo incontro, quello al termine del quale aveva annunciato ufficialmente il ritiro. “Potevo starmene a letto finché volevo, anziché svegliarmi all’alba e andare a fare jogging sulle mura cittadine, ma la domanda a cui non riuscivo a dare risposta era: cosa sono io senza la boxe? E senza il mio pubblico? E senza il gusto della sfida? E senza la spinta che questo è riuscito a darmi in tutto questo tempo?
    Adesso lui insegna pugilato ai giovani e ha trovato la sua strada alternativa. Auguro a Jennifer di trovare la sua.

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