Yes, We Can

 
1 Dicembre 2008 Articolo di Marcos
Author mug

Il mondo dello sport regala splendidi protagonisti alla lotta per i diritti civili: da Jesse Owens a Billie Jean King, sessant’anni di conquiste.

La lotta contro le discriminazioni razziali, politiche, economiche e sociali nasce nei campi di cotone, sulle navi inglesi, nelle fabbriche americane, per estendersi in tutto il mondo attraverso diverse forme: spesso soffocata nel sangue, purtroppo, non può considerarsi finita. Intere popolazioni o gruppi minoritari, infatti, ancora oggi, sono sottoposti ad ogni tipo di segregazione e persecuzione. Il diritto alla vita, alla libertà di espressione, di culto, di credo politico, di scelta sessuale, il diritto a minime garanzie sociali e sanitarie, e il diritto a condizioni di lavoro dignitose e sopportabili non sono riconosciuti da tutti i governi. In alcuni Stati, tali diritti vengono garantiti solo formalmente. In altri Stati, tali diritti vengono negati apertamente. Per questo motivo, non bisogna smettere di parlarne ed è necessario cogliere ogni occasione, per ribadire che il mondo, per ritenersi giusto, deve impegnarsi affinchè tutti i suoi cittadini possano godere di pari garanzie di libertà.

Lunga e tormentata, la storia della conquista dei diritti civili trova anche nei campioni dello sport splendidi protagonisti di altissimo valore simbolico. Fu James Cleveland Owens, detto Jesse, di famiglia originaria dell’Alabama, terra di schiavi e di cotone, a stupire il mondo nelle Olimpiadi del 1936, vincendo ben quattro medaglie d’oro nella Berlino nazista, sotto gli occhi di Hitler. Jesse mise in imbarazzo anche Roosevelt, che, alle prese con le imminenti elezioni, preferì non festeggiare ufficialmente il pluridecorato di ritorno dalle Olimpiadi, per non indispettire l’elettorato del sud, a cui ancora bruciava la ferita per la sconfitta nella guerra civile americana, scatenata per motivi economici e politici, oltre che per mettere fine alla schiavitù. Un altro Roosevelt, Jack Jackie Robinson, nel 1947, debuttò per i Brooklin Dodgers nella Major League di baseball, mettendo fine a cinquant’anni di baseball color line, la barriera per i giocatori neri.

A rompere la color barrier nel mondo del tennis, ci pensò Althea Gibson, che dovette aspettare il 1950 per poter giocare il suo primo Us Open, spinta da un editoriale uscito nel luglio di quell’anno sull’American Lawn Tennis Magazine, firmato da Alice Marble, plurivincitrice di titoli dello Slam: per l’autrice, se non fosse stata concessa l’opportunità di giocare ad Althea, il tennis si sarebbe macchiato di un’onta indelebile. Tra il 1956 ed il 1958 vinse cinque titoli dello Slam. Nel 1960, Cassius Clay (Mohamed Alì dal 1964), vinse l’oro olimpico alle Olimpiadi di Roma, primo di una serie interminabile di successi: si racconta che il suo impegno in difesa dei diritti delle minoranze di colore culminò nel lancio in un fiume dell’originale della medaglia d’oro appena vinta, come simbolico ed estremo gesto di protesta contro la discriminazione razziale nel suo paese.

Erano gli anni di Martin Luther King, che, nel 1963, venne insignito del titolo di Man of the Year dal Time per il suo costante impegno a difesa degli emarginati, della pace e per la sua lotta non violenta ad ogni forma di razzismo. L’anno successivo, gli fu conferito il Premio Nobel per la pace, all’età di trentacinque anni. Fu assassinato il 4 Aprile del 1968, ma la pistola non fermò il suo pensiero, ancora oggi supremo riferimento per chi crede in un mondo più giusto e libero. Erano gli anni in cui Nelson Mandela lottava con ogni mezzo per sconfiggere l’Apartheid in Sudafrica, fino all’arresto, nel 1962: in suo nome, tutto il mondo civile partecipò all’ondata di sdegno ed ai boicottaggi, finchè, l’11 febbraio 1990, fu rilasciato. Divenne presto il presidente del suo paese ed ottenne la definitiva cancellazione dell’Apartheid. Nel 1993, Mandela e De Klerk (il presidente che ordinò di liberarlo), ricevettero il Premio Nobel per la pace.

Nel 1963, Arthur Ashe fu il primo giocatore nero ad essere convocato per giocare nella squadra americana di Coppa Davis. Nel 1968 vinse il primo Us Open dell’era open e partecipò attivamente alla fondazione dell’Atp. Unico giocatore di colore a vincere gli Us Open, gli Australian Open e Wimbledon, Ashe, alla fine degli anni sessanta, dovette subire lo sgarbo più umiliante: il governo sudafricano gli impedì di partecipare al torneo di Johannesburg per il colore della sua pelle. Arthur iniziò una dura battaglia contro l’Apartheid, chiedendo che la federazione sudafricana fosse esclusa dal circuito del tennis professionistico. Negli anni del primo ministro Vorster, che, pur mantenendo la segregazione razziale, mostrava qualche apertura, isolando i gruppi più reazionari del National Party, Ashe fece due apparizioni nel torneo: nel 1974 perse la finale contro Jimmy Connors. In seguito, molti giocatori aderirono alla lotta, boicottando il torneo: nel 1982, la prima testa di serie era Hank Pfister; nel 1983, la prima testa di serie era Robert Van’t Hof. Il torneo, abituato alla presenza dei migliori tennisti del mondo, lentamente stava spegnendosi, come le speranze di chi si ostinava a sostenere le ragioni dell’Apartheid.

Straordinaria tennista, nata a Long Beach nel 1943, figlia di un vigile del fuoco e di una casalinga, Billie Jean King, nonostante i 39 titoli del Grande Slam vinti in singolo, doppio e doppio misto, è molto conosciuta anche per l’eccezionale impegno profuso nella lotta per migliorare la condizione delle donne nello sport e nella società. Nel 1967, già vincitrice a Wimbledon, affondò le sue prime critiche all’Usta, denunciando la pochezza dei fondi assegnati alle tenniste e, come Ashe fece per l’Atp, si prodigò per la nascita dell’Associazione delle tenniste professioniste (Wta). Proseguì la sua battaglia, chiedendo ed ottenendo (Us Open, 1973; Wimbledon, 2007) pari dignità nelle vincite in denaro per i tornei maschili e femminili. Indimenticabile l’incontro che Billie Jean giocò contro il cinquantacinquenne Bobby Riggs (uno dei migliori negli anni quaranta), che aveva affermato che anche un vecchietto come lui avrebbe vinto contro la prima giocatrice del mondo. La tennista non si lasciò scappare l’occasione e lo sfidò a Houston, il 20 settembre 1973: davanti a più di trentamila spettatori ed a milioni di telespettatori, vinse per 64 63 63 la più famosa battaglia dei sessi. Dopo aver ottenuto diversi riconoscimenti (1972, Sports Illustrated: Sportsman Of The Year. 1987, International Tennis Hall Of Fame. 1990, Life: 100 Most Important Americans Of The 20th Century), pochi giorni fa, Unesco e Wta le hanno conferito il titolo di Global Mentor per l’uguaglianza dei sessi.

La campagna contro i pregiudizi nei confronti del mondo omosessuale si sostiene anche riconoscendo pubblicamente le proprie scelte: così fecero Billie Jean King e Martina Navratilova, all’inizio degli anni ottanta, ed Amélie Mauresmo, alla fine degli anni novanta.

Qualcuno ritiene che schierarsi a favore dei diritti civili e dei diritti delle minoranze non sia più necessario. In questo senso, qualcuno afferma che ritenere storica la recente vittoria di Obama sia un esercizio poco rispettoso proprio nei confronti del prossimo presidente degli Stati Uniti. Io penso che la lotta per i diritti civili e per i diritti delle minoranze potrà terminare solo quando termineranno le aspettative di coloro che continuano a lottare. Non ci sarà più bisogno di lottare, quando gli unici mediocri a poter occupare le più importanti posizioni di potere nel mondo non saranno più esclusivamente bianchi, maschi e sessualmente inclini a scelte tradizionali. Non sarà più lotta, quando tutti gli altri potranno occuparle senza dover mostrare qualità straordinarie.

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10 Commenti a “Yes, We Can”

  1. Fabio P. scrive:

    D’accordo su tutto … tranne che su Billie Jean King.
    dietro non ci sono stati ne’ principi ne’ buone cause.
    Solo una lotta per i soldi.
    E’ chiaro che ha fatto bene a tirare l’acqua al suo mulino.
    Ma vogliamo parlare della qualità dello spettacolo offerto NELLA MEDIA dalle donne rispetto agli uomini ?
    O che non giochino gli Slam tre set su cinque ?

  2. chloe de lissier scrive:

    yes, we can. anche correggere il sottotitolo: si è confuso “lampo d’ebano” con il “reverendo”.

  3. Avec Double Cordage scrive:

    Complimenti Marcos e complimenti anche alla redazione per aver portato anche un po’ del mondo extra-tennis nel blog!

    Da ricordare comunque anche Tommie Smith e John Carlos che durante la premiazione alle olimpiadi di Messico 68 alzarono il pugno con un guanto nero in cielo.

    Ci sono poi anche delle piccole inesattezze, ad esempio non è proprio vero che la guerra civile americana venne fatta per liberare gli schiavi del sud, più che altro fu una guerra contro la secessione degli stati del sud, che si erano dichiarati indipendenti dal resto degli Stati Uniti. Solamente un anno e mezzo dopo l’inizio della guerra Abraham Lincoln dichiarò la fine della schiavitù con la “Emancipation Proclamation” quando riuscì ad evitare anche l’entrata in guerra degli inglesi.

    E poi sei sicuro di riferirti a Jesse Jackson e non a Jesse Owens nel titolo?

  4. enzo cherici scrive:

    Straordinario articolo di Marcos. Una perla. Da stampare emettere da parte. Grazie :-)

  5. Roberto Commentucci scrive:

    Splendido Marcos, davvero. Un raggio di speranza questo tuo pezzo.
    Mi permetto di ricordare il gesto compiuto alle olimpiadi del 1968 dai due attleti di colore Carlos e Smith, che sollevarono i pugni guantati di nero nel simbolo del Black Power, un gesto che in seguito determinerà la loro espulsione dalla squadra statunitense e la privazione da parte del CIO delle medaglie conquistate.

  6. marcos scrive:

    il jesse jackson nel cappello (rapidamente corretto dalla redazione) è un indicativo misto tra un tradizionale lapsus calami ed un classico lapsus freudiano, sempre in agguato. più propriamente, è un lapsus tastierae, che potrei brevettare senza difficoltà!

  7. andrew scrive:

    e Richard Williams al primo Wimbledon vinto da Venus…

    “It’s Venus Party and No one was invited”…

  8. Giovanni da Roussillon scrive:

    Caro Marcos.
    Per quanto lo zio Sigismondo si sia occupato in modo esaustivo dei lapsus (così da far rientrare il calami nella casistica alla stessa stregua del linguae e di ogni altro chiasma), direi che in quanto vate mirabile e stimato del sito, per penna o tastiera e impegno sociale, non ti occorre brevetto, godendo tu pienamente del diritto a qualunque espressione, su licenza. Poetica.
    Senza scherzare, la tua iniziativa ti fa onore di molto.

  9. marcos scrive:

    ottenere licenza da cotal ingegno è motivo di grande orgoglio.

    ringrazio giovanni anche per le stupende traduzioni, che possono leggersi nel sito di ubaldo, quello in versione francese.

  10. Giovanni da Roussillon scrive:

    Potere senza volere.
    Questo parrebbe il luogo propizio dal quale avviare una discussione sulle possibilità di cambiamento delle situazioni stagnanti e annose di cui il mondo tennis è ricco. Una sorta di raccolta di preamboli o dichiarazioni di intenti.
    Peccato che i più (io tra quelli) preferiscano indugiare prodighi altrove sullo stempiamento precoce di Nikolay, sui disturbi della personalità sofferti da campioni del passato, sulla probabilità di vincere ics tornei di grand slams da parte dei campioni futuri, sul colore più consono delle brache di tela portate dal goat e via via.
    Insomma, desideriamo tanto che le cose mutino, siano più eque. Senza volerlo veramente. I gattopardi sorridono compiaciuti; mentre quanti miriamo con concretezza allo scopo inciso sul braccio di Tipsarevic?

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