Call Center, la grande illusione (e non si è ancora toccato il fondo)

di Lorenzo Sani
Troppi termini in inglese, troppe parole che finiscono per ing. Da qualche parte deve nascondersi la fregatura. Non la raccontano mica giusta quelli della new economy, la rivoluzione partita dall’alto e deflagrata in basso seguendo una flessibilità troppo spesso a senso unico, che rischia di fare a pezzi molte tutele tra quelle previste nel frastagliato complesso dei nuovi contratti di lavoro. Lo ha sottolineato di recente anche il professor Michele Tiraboschi, strettissimo collaboratore di Marco Biagi, il padre della Legge 30, riferendosi ai call center: “La soluzione prospettata in termini sperimentali dalla Legge Biagi, è rimasta nel cassetto. E pur di non metterla in pratica il sindacato firma intese non solo fortemente peggiorative per i lavoratori, ma che, in taluni casi, si traducono persino in evidenti violazioni di norme di legge da tempo esistenti”. Ovviamente i sindacati la pensano in maniera opposta. I call center sono la punta dell’iceberg di un cambiamento vorticoso, l’icona del lavoro usa e getta esploso col nuovo millennio: a Marcinelle Fausto Bertinotti li ha paragonati alle miniere e i lavoratori flessibili ai minatori. Lo scrittore sardo e sardista Claudio Cugusi racconta in “Call center, gli schiavi elettronici della new economy” che il primo call center nasce nel 1968 in America e nonostante fossero tempi piuttosto perturbati, almeno negli Stati Uniti quella nascita non passò inosservata. L’idea non si deve a un geniale esperto di marketing, ma al pragmatismo rasoterra di un giudice federale che, accogliendo il ricorso di una associazione di consumatori, obbligò la Ford ad istituire un numero telefonico gratuito per i reclami relativi a un particolare modello di automobile immesso sul mercato. “LA FORD - scrive Cugusi - fu costretta a ricercare una soluzione che le permettesse di dare risposte a tutti i clienti senza caricarsi di un onere per i costi telefonici eccessivamente alto. Grazie a un accordo con la compagnia telefonica AT&T, la casa automobilistica qualche mese dopo l’ingiunzione federale attivò il primo numero verde della storia, contrassegnato dal prefisso 800 che poi è diventato il prefisso mondiale di tutti i numeri verdi. Il successo dell’iniziativa fu immediato”, ma, come si è compreso qualche decennio più tardi, è sfuggito di mano al suo inventore. La trasformazione delle conoscenze tecnologiche e della rete di internet hanno fatto il resto e i call center in larga parte hanno virato dalla vocazione originaria di assistenza ai clienti al ruolo di testa d’ariete delle nuove politiche di marketing, rispondendo sempre più alla direzione commerciale delle aziende, piuttosto che alle relazioni esterne, o customer service che dir si voglia.
Quotidianamente 300.000 italiani si rivolgono ai call center o ne sono agganciati ed è facile intuire che il fulcro del sistema siano proprio le risorse umane, i dipendenti. Eppure i dati sui lavoratori atipici alla nuova catena di montaggio del sorriso sono quanto di più atipico si possa provare a cercare, ricorda Andrea Bajani nella sua guida corrosiva “Mi spezzo ma non m’impiego”. “In Italia c’è qualcuno ancora più precario dei lavoratori precari: i dati sui lavoratori precari. Sono insicuri, non si decidono a crescere, vivono in alloggi provvisori con soppalchi improvvisati. Poveri dati precari che non vogliono diventare adulti”. Ma la vera svolta, peraltro già ben avviata con lo spostamento dei call center verso strutture esterne all’azienda, è la delocalizzazione nei Paesi a bassi salari del lavoro usa e getta. Non più semplici operatori telefonici, ma consulenti legali, delle tlc, architetti, ingegneri elettronici, contabili. Gli Usa stanno spostando in massa i call center in India e Cina, ma l’Europa dell’Est è il terzo approdo, in progressiva espansione. Secondo l’Economist Intelligence Unit al terzo posto dell’offshoring, dopo India e Cina, c’è la Repubblica Ceca. La Fiat dei call center italiani, il Gruppo Cos, creato negli anni Ottanta dal top manager dell’Ibm Alberto Tripi, ha aperto la strada verso Paesi come la Romania e la Tunisia. Altri approdi sono Russia, Bielorussia, mentre le repubbliche baltiche, Lettonia, Lituania, Estonia offrono ai paesi scandinavi il Baltic IS Cluster, una task force di 30mila addetti che parlano svedese e finlandese, i tedeschi si sono riversati su Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria. In forte sviluppo la Polonia dove colossi come Philips e Lufthansa hanno spostato rispettivamente il centro di assistenza clienti europeo (a Lodz) e la contabilità di Gruppo (a Cracovia), mentre il centro di controllo smistamento della DHL è a Praga. Secondo il settimanale Business Week l’economia europea rischia di perdere nei prossimi anni il famigerato milione di posti di lavoro nei servizi finanziari e nelle telecomunicazioni. Gira e rigira, si torna sempre lì.

Sfruttamento legalizzato

Giovani, ma non necessariamente giovanissimi. Sono circa 200.000 le persone impiegate nei call center italiani, in larga parte donne (60 per cento), sui quattro milioni di lavoratori precari. L’età media degli operatori è di 28 anni, il 30 per cento ha la laurea in tasca, guadagna tra i 600 e gli 800 euro al mese. Ma i motivi di insoddisfazione non sono pochi. “C’è stata una progressiva legalizzazione dello sfruttamento ultimato con la Legge Biagi, ma iniziato col cosiddetto pacchetto Treu”, denuncia Fulvio Macchi, segretario generale del sindacato autonomo Snater. “E’ impensabile che aziende delle dimensioni di Atesia o Telecontact (sempre della galassia Telecom) si avvalgano al 90-95 per cento di questi nuovi contratti. La conseguenza è una totale deregolamentazione del lavoro e dell’occupazione”. Eppure, applicando con rigore la Legge 30, dovrebbe essere difficile il massiccio ricorso agli ex co.co.co e lavori a progetto, soprattutto nei call center. “Nella realtà succede l’opposto”, sottolinea Macchi, che pure è impiegato in un call center. “Nell’ambito del lavoro c’è una doppia condizione: quella dei lavoratori di Atesia che sono per lo più giovani e precari e quella di altri lavoratori vittime delle ristrutturazioni delle aziende di cui erano dipendenti e si sono dovuti adeguare alla nuova tipologia di lavoro. Essere operatore di call center oggi si vive in maniera drammatica: sono le nuove catene di montaggio. Nessuno parla di cottimo ma sicuramente il cottimo c’è”. Il lavoro rientra a pieno titolo nelle categorie “usuranti” per cui la «tutela della salute psicofisica degli occupati» è al primo posto nelle richieste del sindacato autonomo. Non molto meglio vanno le cose se inquadrate dalla prospettiva degli utenti. “A partire dal 2000, abbiamo assistito a un fenomeno drammatico per i cittadini, soprattutto per le fasce deboli, gli anziani e i disabili: la desertificazione degli sportelli. Grandi aziende come Enel, Eni gas e le controllate hanno posto in essere questa azione che, come consumatori, abbiamo sempre denunciato e contrastato”, ricorda Francesco Luongo, del direttivo del Movimento difesa del cittadino che nel 2005 ha curato per i suoi associati - spiega - “5.423 reclami nel settore dell’elettricità e ben 8.221 in quello del gas per le bollette pazze”. Anche per questo motivo Luongo ha accolto con soddisfazione l’iniziativa dell’Authority dell’energia elettrica che ha avviato una indagine sulla qualità delle risposte telefoniche fornite ai consumatori da parte dei call center commerciali delle aziende fornitrici di energia. “La questione di fondo è che non tutti i problemi dell’utente possono essere risolti dal call center: la presenza fisica di uno sportello è importante e deve essere obbligatoria per quanto riguarda i settori gas-elettricità”. L’Mdc auspica che un’istruttoria analoga a quella promossa dall’Authority per l’energia sia avviata anche in altri settori, “soprattutto nelle giungla delle telecomunicazioni, dove si arriva anche a forme di pubblicità ingannevole. Il consumatore deve potersi approcciare a questi servizi con la consapevolezza che si tratta di servizi commerciali. Altrimenti ci troviamo al cospetto del grande inganno degli anni Duemila”

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5 Commenti a “Call Center, la grande illusione (e non si è ancora toccato il fondo)”

  1. oltre a chi nasce precario, c'è chi lo diventa... scrive:

    Esternalizzazione Call Center Wind (N. Totale 275 persone)

    Salve a tutti, volevamo segnalare l’ennesimo caso di violazione della tutela del lavoratore a seguito della comodità di terziarizzare in out-sourcing il lavoro in Italia.

    Infatti, presso l’Azienda Wind (ex Enel) venduta circa 1 anno fa a un industriale egiziano, si sta procedendo a una graduale cessione di alcuni Call Center diretti dell’Area del nord Italia (Milano/Sesto San Giovanni) costituiti solo da lavoratori a tempo indeterminato con anzianità lavorativa oscillante tra i 7 e i 10 anni, molte donne, mamme quasi tutte oltre i trent’anni, ragazzi che avevano trovato il coraggio di lasciare la casa di mamma e papà per la ricerca della propria indipendenza.

    Ancora una volta la logica del profitto vince su quella della qualità della vita così con l’intento di trasferire il rischio d’impresa ad altri soggetti economici di non eguale affidabilità si fa vacillare la certezza di un posto di lavoro, la possibilità di pagarsi un mutuo per la propria casa e la realizzabilità di una famiglia.

    Pertanto chiediamo che venga fatta luce sull’accaduto richiamando l’attenzione mediatica e politica al fine di ottenere un tavolo di trattative in grado di tutelare il contratto a tempo indeterminato, quale prerogativa della professionalità dei lavoratori di Sesto San Giovanni, i livelli occupazionali in Wind ed contrastare le oramai note Cessioni di ramo di Azienda, utilizzate per camuffare licenziamenti di massa.

    i dipendenti call center di sesto san giovanni

  2. oltre a chi nasce precario, c'è chi lo diventa... scrive:

    Salve a tutti, volevamo segnalare l’ennesimo caso di violazione della tutela del lavoratore a seguito della comodità di terziarizzare in out-sourcing il lavoro in Italia.

    Infatti, presso l’Azienda Wind (ex Enel) venduta circa 1 anno fa a un industriale egiziano Naguib Sawiris, si sta procedendo a una graduale cessione di alcuni Call Center diretti dell’Area del nord Italia (Milano/Sesto San Giovanni) costituiti solo da lavoratori a tempo indeterminato con anzianità lavorativa oscillante tra i 7 e i 10 anni, molte donne, mamme quasi tutte oltre i trent’anni, ragazzi che avevano trovato il coraggio di lasciare la casa di mamma e papà per la ricerca della propria indipendenza.

    Ancora una volta la logica del profitto vince su quella della qualità della vita così con l’intento di trasferire il rischio d’impresa ad altri soggetti economici di non eguale affidabilità, si fa vacillare la certezza di un posto di lavoro, la possibilità di pagarsi un mutuo per la propria casa e la realizzabilità di una famiglia.

    Pertanto, chiediamo:
    - che venga fatta luce sull’accaduto richiamando l’attenzione mediatica e politica al fine di ottenere un tavolo di trattative in grado di tutelare il contratto a tempo indeterminato, quale prerogativa della professionalità dei lavoratori di Sesto San Giovanni;
    - di garantire i livelli occupazionali in Wind e di contrastare le ormai note cessioni di ramo di Azienda, utilizzate per celare licenziamenti di massa;
    - la possibilità di una ricollocazione dei dipendenti Wind di Sesto San Giovanni all’interno dell’azienda stessa

    dipendenti wind sesto san giovanni

  3. marco scrive:

    ragazzi buongirno,
    sono un legale di roma che si occupa anche del contenzioso ATESIA, e devo confessarvi che i sindacati non riescono ad arginare l’interesse del datore di lavoro e li vediamo spesso scendere a compromessi…..agite privatamente e, anche in seguito ai nuovi sviluppi, troverete le vostre legittime tutele
    per info merlomarco@hotmail.com

  4. Paolo Spinola scrive:

    E’ incredibile che lo stato e l’Autority permettono ad aziende come Enel ed Eni Gas & Power di chiudere gli sportelli al pubblico rimandando tutto ai call center che non funzionano mai, inventano informazioni sbagliate , non rispondono mai al telefono ecc,ecc.
    Dovrebbero obbligare le aziende ad avere almeno uno sportello in ogni Comune servito dalle rete gas e dell’energia elettrica.

    Paolo Spinola da Milazzo

  5. ghino di tacco scrive:

    DATACONTACT MATERA: LA GRANDE ILLUSIONE

    Datacontact è una delusione.
    La sua dirigenza non ne parliamo.
    Continuano a giocare sul bisogno estremo di lavoro altrui per applicare regole irregolari.
    Ci ascoltano mentre lavoriamo (cosa del tutto illegale); giocando con una liberatoria da noi operatori firmata ma che a detta di molti legali è solo carta straccia.
    Parlano di contratti ma in realtà ci hanno messo in condizioni di preferire il contratto a progetto in quanto con il “loro” contratto regolare facciamo davvero la fame.
    E qui c’è chi come me ha una famiglia da mantenere.

    Si fanno belli con strepitose convention berlusconiane con tanto di maxischermi e artisti pagati fior di euri.

    Mi chiedo: “Ma distribuirli ai dipendenti, no”?

    All’interno un bar che tutto è tranne che un bar aziendale.

    Insomma, tutto fatto in modo tale da lasciare parte dello stipendio misero nell’azienda stessa.

    Per non parlare di tutti i calcoli che noi operatori Tim dobbiamo sopportare.

    Un meccanismo di “Stelle”, percentuali che salgono e scendono senza logica ma secondo le dirigenza è tutto un sistema perfetto.

    Un ambiente in cui se ti chini e sbavi dietro ai vari kapò hai un minimo di considerazione; se fai solo il tuo lavoro rischi di cadere nelle grinfie di qualche sballato meccanismo di calcolo incentivi.

    Un’azienda in cui le dirigenze ” costringono” i dipendenti a manifestare contro la chiusura al traffico nei sassi minacciando con tanto di circolare fatta girare, il trasferimento in altra città.

    Ma non pigliamoci per culo.

    Noi operatori vorremmo tutti sapere a quanto ammonta il canone di locazione di quella bellissima struttura oramai di proprietà Tosto.

    E’ davvero vergognoso che continuino a parlare di serietà quando invece la realtà è nettamente diversa.

    Vi assicuro che non è bella cosa arrivare a fine mese e sentirsi dire: “Mi dispiace, ma poichè gestisci le telefonate in 4 minuti anzichè 3 la tua percentuale di “non fatturato” è alta e quindi non hai incentivi”……

    E vi assicuro che nonostante i miei sforzi nel cercare di capire, ad oggi non ho ancora capito come si possa calcolare il lavoro basando il tutto su calcoli e tempistiche assurde.

    Eppure il motto di Datacontact è “Qualità”.

    State certi, la qualità è l’ultimo aspetto considerato dai kapò di Datacontact.

    E nessuno osa dire nulla.

    Perchè sapete che succede?

    Ti convocano e ti dicono:” Ci dispiace ma non ci servi più”.

    Si, vi sembrerà assurdo ma è così.

    E gli ispettori del lavoro con i loro fanta controlli?

    Tutto organizzato e tutti lì a staccare turni imposti ( e non flessibilità come richiesto dalle normative sui contratti a progetto).

    I Kapò pronti ad istruirti su quello che si deve e quello che non si deve dire all’ispettore di turno…..

    E come se non bastasse loro hanno scelto le persone da mandare dagli ispettori…non prima di averli istruiti a dovere.

    Beh, se questa è un’azienda seria Mussolini era un bolscevico.

    Vi saluto

    Ghino di Tacco

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