Lavorare di più per guadagnare di più

Spett.Dott.De Carlo

Vorrei rispondere al trafiletto presente sulla NAZIONE del 15 Maggio 2007, dove si parla di lavorare di più per una maggiore competitività.
Io sono un operaio di 32 anni e non so quanto sia la media di ore lavorate in Europa o nel mondo, non conosco i dati della produttività o del pil., non passo le ore a fare sondaggi o statistiche dalla attendibilità discutibile, ma trascorro buona parte della giornata in fabbrica.
Uno, dei milioni di operai, che si sporcano le mani e creano quel benessere che tanto spesso citate.
Ma mentre qualcuno si gode il benessere e il circolo virtuoso, molti di noi sgobbano, per salari da fame o contratti improponibili, alla catena di montaggio, nelle concerie, sulle impalcature e in tantissimi altri posti, molto spesso lasciandoci la salute o addirittura la vita.
Non mi stupisco del signor A.M.( che di sicuro nasconde un interesse di parte), ma di un giornalista serio e intelligente come lei.
Ho trovato francamente il trafiletto alquanto offensivo, perchè tratta di un argomento importante come il lavoro con una superficialità davvero sconvolgente.
Egregio Dott. De Carlo noi operai chiediamo rispetto, il che significa non solo lavoro e dignità, ma anche di godere dei frutti del lavoro.
Ritengo che si faccia un uso distorto della parola benessere.
Quel benessere che, per me, non è solo pil., consumi, produttività, ricchezza, competitività, ma anche poter passare il tempo con la propria famiglia, i propri amici, coltivare i propri interessi ( lettura, pittura ecc.).
Questo è quello che chiedo ad un paese civile.
Chiudo il mio intervento invitandola a fare più attenzione nel trattare argomenti delicati come questi.
Grazie.

Gabriele C.

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Caro Gabriele,

la mia ‘’superficialità sconvolgente’’ ha qualche valida attenuante: è la proiezione della brevità imposta dalla moderna grafica. Noi giornalisti dobbiamo essere concisi, servire ai lettori i concetti in pillole e posso dunque capire che qualcuno di loro scambi la concisione per superficialità. D’altra parte non abbiamo scelta.
Nell’epoca della tv satellitare, di Internet, dei Dvd e di dozzine di altri mezzi di comunicazione la stampa scritta se vuole conservare i lettori deve essere breve, schematica, semplice.
Ovvio che il tema dell’orario di lavoro avrebbe meritato una ben più ampia trattazione. Ma avevo a disposizione quindici righe. Se ne avessi avute di più avrei affrontato un aspetto collaterale e cioè quello dei bassi salari che contraddistinguono il mondo del lavoro italiano. Non per auspicarne un aumento a freddo, come spesso chiedono i sindacati, quanto piuttosto per ribadire un concetto che in Italia sembra così difficile da recepire. Questo: la ricchezza prima di ridistribuirla attraverso maggiori compensi, maggiori spese sociali, maggiori previdenze, maggiore sicurezza bisogna produrla. E per produrla bisogna lavorare.
Chi lavora di più determina ovviamente una maggiore produttività. E a sua volta una maggiore produttività significa più competitività, più vendite, più utili, più consumi, salari più alti e via di seguito nella spirale virtuosa dell’economia di mercato.
In Italia invece la spirale è viziosa. Non ci illuda la ripresina di cui parla il governo. L’Italia ha un sistema produttivo vecchio e poco competitivo. Gli stranieri non investono perché sanno che prima o poi si scontreranno con gli interventi del governo, con l’alta conflittualità sindacale e con un sistema che non premia qualità e merito, non incoraggia la competizione all’interno dell’azienda per cui chi meglio fa più guadagna, non combatte ma favorisce il livellamento delle retribuzioni.
In un’economia globale la mancanza di investimenti è penalizzante. E la poca ricchezza prodotta (guardi gli indici della crescita) comprimerà i salari verso il basso.
Lei mi dice che comunque anche potendo lavorare di più non lo farebbe perché intende dedicare molto tempo alla famiglia, agli svaghi, alla cultura, insomma al tempo libero. Ha tutta la mia comprensione e anche il mio rispetto. Si goda i frutti del lavoro, come è suo diritto. Ma si rassegni allora ad essere pagato come viene pagato.
Suppongo che a questo punto lei mi domanderebbe che fare per invertire il ciclo negativo. La risposta è quella che ho già dato: un patto sociale fra le parti, come appunto quello raggiunto di recente in Austria fra organizzazioni degli imprenditori e organizzazioni dei lavoratori, in un quadro legislativo che non leghi loro le mani. In Austria (che non è la Thailandia, voglio dire è proprio al di là delle Alpi, e che è una delle nazioni socialmente più avanzate d’Europa) chi vuole potrà lavorare sino a 60 ore settimanali. Potrà, non dovrà. Chi non sarà d’accordo andrà a passeggio nei boschi della Corinzia..
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