Archivio di Novembre 2006

Cossiga e la grande delusione

Mercoledì 29 Novembre 2006

Caro Dottore,
la seguo da tempo e spesso, anzi sempre, sono d’accordo con i suoi editoriali. Così quando alcuni giorni fa ho letto le sue feroci critiche ai senatori a vita e all’assurdità di un istituto che – se non sbaglio – oltre che in Italia esiste solo anche in Cile e Francia (ma in forma quasi simbolica), mi sono detto: ecco qualcuno che ha avuto il coraggio di mettere il dito nella piaga.
Quando poi, un paio di giorni dopo, ho trovato sul mio immancabile Carlino la notizia delle dimissioni di Francesco Cossiga, mi sono detto: De Carlo ha colpito nel segno, finalmente un politico che ha avvertito la decenza di rimettere un mandato che non gli appartiene perché non eletto da nessuno.
Poi la grande delusione. Cossiga non si era dimesso in quanto condivideva le critiche ai senatori a vita ma per ragioni di bottega e di ripicca personale. E in ogni caso – ne sono sicuro – ripeterà il giochetto dell’altra volta, quando si dimise per poi rientrare in seguito all’immancabile appello dell’establishment.
Che ne pensa?
Giorgio Flamini
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Caro Flamini,
non mi sono illuso, nemmeno per un momento che il senatore a vita Cossiga si fosse ispirato per la sua solenne (e come lei dice presumibilmente provvisoria) decisione alle mie considerazioni. Non credo davvero che il Carlino rientri fra le sue letture. Non perché l’illustre politico sia sardo, ma perché da autorevole rappresentante di quell’establishment da cui di tanto in tanto gioca a prendere le distanze preferisce appunto i giornali dell’establishment (Corriere, Repubblica, Stampa).
Credevo però che avrebbe colto l’occasione per uno sguardo storico su un istituto che mortifica la costituzionalità delle istituzioni. Credevo che si sarebbe fatto interprete, seppur in via impersonale, del diritto del cittadino elettore ad essere rappresentato da parlamentari eletti. Nulla di tutto questo. E così ci terremo e continueremo a pagare sette senatori, arbitri dei nostri destini dati i risicati rapporti di forza. Sette senatori privi di qualsiasi mandato popolare, nominati a vita da presidenti della Repubblica che a loro volta – nemmeno loro – sono pienamente rappresentativi della volontà popolare, essendo eletti dal Parlamento e non a suffragio universale.
Amen!

Senatori a vita

Lunedì 27 Novembre 2006

Buongiorno,ho appena letto il Suo commento di stamani “non in nome del popolo” e mi è venuta la voglia di scriverLe subito per complimentarmi.
Quello che ha scritto è esattamente quello che penso!!!
Grazie per averlo pubblicato,complimenti!!
Renata Pardocchi

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Grazie per la sua attenzione. L’istituto dei senatori a vita è un’offesa al buon senso oltre che un vulnus costituzionale.

Emendamento costituzionale

Lunedì 27 Novembre 2006

Egregio dr. De Carlo,
ho letto il suo commento di ieri su La Nazione. Premetto che sono un giovane poco avezzo alla politica. Infatti, non penso di avere capito bene il suo articolo. Praticamente lei chiede di modificare la Costituzione, cancellando di punto in bianco il puridecennale diritto di voto dei senatori a vita, in quanto non corrisponde agli orientamenti politici del centrodestra, di cui lei, a quanto ho capito leggendo i suoi pezzi, si è fatto ossequioso portabandiera? Di Emilio Fede ne esiste già uno, le brutte copie, solitamente, non hanno successo…
Nicola Ballerini

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Lei mi ha seguito solo a metà. Certo, sono favorevole a un emendamento costituzionale che cancelli l’anacronistico e antidemocratico istituto dei senatori a vita (i quali appunto perché di nomina e non elettivi non rappresentano che se stessi, ma il loro voto pesa quanto quello di chi ha alle spalle qualche centinaia di migliaia di voti). Questo mio auspicio non ha niente a che fare con Berlusconi, che pur a suo tempo si giovò del loro appoggio), e con Emilio Fede i cui telegiornali – ad essere sincero – più che informarmi mi divertono.

Panzanate?

Lunedì 27 Novembre 2006

Gentile Dr. De Carlo,
seguo il Resto del Carlino da molti anni, mai ho letto una tesi più strampalata di quella
cho ho letto oggi sui senatori a vita. Lei mi ricorda quelli che volevano cambiare la Costituzione del ‘48 accampando tesi che chiamarle panzanate era un complimento.
Stia bene Dr. De Carlo.
Narcisi Primo

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Panzanate? Perché non me ne spiega le ragioni magari in una lettera meno umorale?

Comunisti, Pansa e dittatura

Lunedì 27 Novembre 2006

Gentile Dottor De Carlo,

Considero una fortuna che Lei sia dotato di un indirizzo e-mail.
Avviene che quando si indirizzi un intervento ad un quotidiano, sia necessario stendere un testo sintetico. Per uno che si scrive addosso come il sottoscritto, è missione impossibile. Sono inoltre persuaso che la sintesi finisca spesso in corto circuito. Intendo che, oltre a non permettere di esprimere appieno il proprio pensiero, talvolta lo tradisca.
Lei è prova vivente che quanto affermo è fondato.
Nel suo commento (QN, 1° ottobre 2006) all’uscita del “prossimo bestseller” (come faccia a sapere che tale sarà, è mistero glorioso) di Giampaolo Pansa, Lei scrive: “Titolo: La grande bugia. Che sarebbe questa: per i comunisti italiani la Resistenza non rappresentò solo la sconfitta del fascismo, ma anche il passaggio per la conquista del potere”. Messa così, significa che è grande bugia sostenere che “per i comunisti italiani la Resistenza non rappresentò solo la sconfitta del fascismo, ma anche il passaggio per la conquista del potere”. Tesi che costituirebbe un falso storico; tradirebbe inoltre le opinioni che abitualmente esprime (leggerLa è sempre un piacere), del resto ribadite dal Suo commento.
Ecco, le fregature della sintesi.
Nel merito: temo che il Suo anticomunismo La ponga in stato confusionale. A non voler pensare male. Secondo autorevoli affermazioni, a farlo si commette peccato (però a volte ci si azzecca).
Non mi tange: come Prezzolini, non ho ricevuto “la grazia del credere”.
Veda: dopo aver affermato che “La fragile democrazia del 25 Aprile era destinata a diventare una democrazia popolare comunista dominata da un partito unico e subalterna al totalitarismo sovietico”; dopo aver sostenuto che per i comunisti italiani la Resistenza rappresentò il
passaggio alla conquista del potere; dovrà pur spiegarci come e qualmente l’infausto evento non si è verificato. Altrimenti, la Sua analisi risulta monca, un’invettiva da anticomunista viscerale. Roba di
pancia; non di cervello.
Forse troverei risposta nel (presunto) bestseller di Pansa: ma francamente, non ho voglia di arricchire uno che ha trovato la sua piccola vena d’oro. L’uovo di Colombo: sono notoriamente un uomo di sinistra; magari in possesso di cinquanta lire di tessera…
Cosa meglio che atteggiarsi ad equidistante, oggettivo, perfino caritatevole, scrivendo di “vinti”, di “grandi bugie” (se Marcello Veneziani avesse affrontato l’argomento negli stessi termini, lo avrebbero crocefisso)?
Noti: non considero Pansa un ”traditore”: soltanto uno che, per il mio pessimo carattere, sta facendo il furbo, cavalcando la tigre e fornendo munizioni agli avversari politici argomentando che certe cose vanno dette senza guardare in faccia a nessuno: giustissimo, se non fosse
che, al solito, dietro ogni questione di principio ce n’è un’altra di tipo gastronomico. Inoltre, c’è modo e modo. Solo che, se usasse quello a cui penso, col fischio che Lei e quelli che condividono le Sue opinioni acquisterebbero il volume. Per conseguenza, l’Ufficio Marketing si arrabbierebbe, il box office languirebbe, il best scordarselo e il seller risulterebbe lacrimevole.
Ma il diavolo non è così cattivo come si dipinge… Intervistato lunedì 9 ottobre alla radio (“Fahrenheit”, Rai 3), ha iniziato osservando che, senza i comunisti, la Resistenza non sarebbe stata nemmeno pensabile.
Temo che il nodo sia questo. Rientrato in Italia, Togliatti non poteva non fare fronte comune con gli altri partiti. I vecchi antifascisti di cultura comunista erano già in lotta o in procinto di entrare nella
medesima. Nemmeno tanto per l’”onore della Patria”, quanto per liquidare vecchi conti in sospeso (la Resistenza fu, guerra civile e – in quanto - ideologica): avrebbero combattuto in ogni caso. In qual
modo, convincerli a collaborare con i Resistenti di altri partiti? Ma soprattutto, vitale era limitare gli eccessi, i processi sommari, le vendette (mica era scemo: sapeva benissimo cosa era successo in Spagna.
In primis, contro gli anarchici; pur se al pari dei comunisti combattevano per la Repubblica) che infatti, salvo qualche caso sporadico, nel corso della guerra non ci furono.

Aggiunga i comunisti di nuova acquisizione. Giovani. Non
necessariamente dei voltagabbana. Rammento che un antico critico
cinematografico, Renzo Renzi, ricordava tanti anni fa come grande
tragedia vissuta la seguente: prima della guerra aveva due fraterni
amici. Università, Guf, vissuti insieme. Come lui, arruolati quali
ufficiali di complemento allo scoppio delle ostilità. Dopo l’8
settembre, Renzi finì nella Resistenza, uno dei due venne fatto
prigioniero in Grecia dai tedeschi e deportato in Germania;
sopravvissuto, rientrò a Bologna dopo la fine della guerra. Il terzo si
arruolò nella Repubblica Sociale. Per dire che le circostanze, i
pensieri che ti frullano in testa in un momento drammatico, portano
alle scelte più diverse; salva restando la buona fede di ognuno, la
mancanza di calcolo delle convenienze (spregio chi ha fatto scelte
valutando perdite e profitti. E sicuramente ci sono stati).
Giovani, si diceva. Ex fascisti che avevano abbandonato un
totalitarismo in favore di un altro. In certo modo, comprensibile, dopo
venti anni di propaganda. Che volevano (continuavano a volere) la luna.
Come non promettere loro una “seconda ondata”? Come convincere i vecchi
militanti a collaborare con gruppi che erano emanazione di altri
partiti, a non abbandonarsi ad eccessi, se non facendo analoga
promessa? Naturalmente, all’insaputa degli altri componenti il CLN. E’
il solito cinismo, la spregiudicatezza, la doppiezza di Togliatti che,
rientrato da Mosca e in costante contatto con i dirigenti sovietici,
non poteva non sapere che i giochi, in realtà, erano già stati fatti;
che la “seconda ondata” era impossibile, che l’Italia sarebbe rientrata
nella sfera d’influenza degli Stati Uniti. Come puntualmente fu sancito
in via ufficiale (Le pare possibile che la decisione sia stata presa
all’impronta? Era nelle cose. C’era già stato l’incontro di Teheran)
nel 1945, alla Conferenza di Yalta. Certo: c’era la variabile
costituita dalle elezioni. Non è per caso che quel furbacchione di
Togliatti, alla “svolta di Salerno”, si affrettò a proclamare che i
comunisti italiani avrebbero perseguito “la via democratica al
socialismo”.
Di passaggio: da notarsi che, scegliendo quella via; ponendo i suoi
uomini alla testa della Resistenza (di fatto: se non altro perché
numericamente superiori agli altri gruppi), il “Migliore” si sottrasse
ad una insidia. Veda: un comunismo realizzato “come Dio comanda” (!)
non può essere altro che la dittatura del proletariato: inaccettabile,
da un sistema parlamentare, che dovrebbe quindi dichiarare fuori legge
il partito comunista: nessuna democrazia può (dovrebbe) essere talmente
democratica da ammettere nel suo seno un gruppo che è contrario alla
sua essenza: sarebbe un suicidio, come insegna la fine della Repubblica
di Weimar. Giunto al potere sfruttando le urne, Hitler ripagò
abolendole, come era nei voti degli Junker, suoi finanziatori. La prova
provata che al sistema possono partecipare solo quelli che democratici
sono, elettori (o Grandi Elettori) compresi. Altrimenti, è il gioco
delle tre carte.
Una scelta che impedì alla democrazia italiana di liberarsi del
convitato. Consegue che, se il 18 aprile 1948 i comunisti avessero
raggiunto la maggioranza assoluta, ci avrebbero portato nell’orbita
sovietica nonostante la spartizione di Yalta, argomentando che su
questa doveva prevalere il principio dell’autodeterminazione dei popoli
di cui si era parlato a Teheran.
Converrà però, tornando a bomba (espressione che mi piace: in fondo,
sono un vecchio anarchico) che una cosa è la seconda ondata; altra
conseguire il potere attraverso libere elezioni, per le quali le armi
non servono (a meno che…vedi sotto).
La grande bugia è stata quella dei dirigenti del PCI ai Resistenti
comunisti. Quella che Lei non individua è la frattura fra vertice e
base. Questa ha combattuto con il retropensiero di conquistare il
potere. Di sottomettere l’Italia al totalitarismo sovietico. Ma la
dirigenza sapeva che era impossibile. Tanto è vero che, come si è
visto, niente di quanto i Resistenti comunisti progettavano si è
verificato. Ed è esattamente quando hanno percepito che la fase due era
irrealizzabile, che si sono “almeno presi la soddisfazione” (fra
virgolette, perché ho scritto cosa orribile. Sapendolo) di dedicarsi ad
alcuni di quegli eccessi che avevano evitato rimandandoli a quella
fase.
Ovvio che la mia è semplice opinione; tuttavia suffragata da un
ragionamento articolato e completo, del quale il Suo testo è privo;
tanto che, con buona ragione a questo punto, ho potuto definirlo monco
e confusionario. A volere pensar male (allusione a parecchie righe or
sono), viene da considerare che Lei abbia volutamente steso l’articolo
nel modo valutato perché Le premeva sostenere la tesi “complottarda”
per infamare base e vertice, giudicando “ininfluente” (tacendo) il
fatto che il “bel piattino” non sia mai stato servito nei termini in
cui lo pone. Addirittura, rasenta la connivenza con gli assassini,
quando non ricorda al lettore che in realtà la pietanza fu scodellata,
sia pure in modo rozzo e limitatamente ad alcune aree geografiche
(trentamila morti, secondo Ferruccio Parri. A guerra terminata). Cosa
non si rischia, per settarismo!… Ma avrebbe scompaginato la Sua tesi.
E per onestà morale (della quale non dubito) avrebbe poi dovuto
precisare che, oltretutto, i massacri furono il tragico portato di uno
scontro feroce, della tragicità della guerra; invitando a tener
presente il contesto.
Quanto alle armi trovate nella campagna emiliana a guerra terminata da
un pezzo. E’ talmente incontestabile quella presenza che (qui lo dico e
qui lo nego) so per certo che in alcuni pagliai, fino a tutti gli anni
’60, quelle armi sono state conservate. Circa il modo in cui i
detentori intendessero usarle, mi sembra che ci sia poco da fare gli
spiritosi (Lei lo fa, con sprezzante ironia). Certo, non “a passare
alla due della rivoluzione proletaria”, dal momento che la circostanza
non si è verificata. Se fosse meno accecato dal livore, converrebbe che
il momento giusto per procedere a tal fase era quello immediatamente
successivo alla fine della guerra. Mentre gli arsenali sono stati
rinvenuti “a guerra terminata da un pezzo”: quando la fase due era
improponibile. Eppure, se sono restate al loro posto, ci sarà un
motivo… Per esempio, per difendere il risultato di libere elezioni, nel
caso in cui nel 1948 (o anche dopo…) avessero vinto i comunisti e
qualcuno avesse rovesciato il tavolo: sa, il ricordo della guerra di
Spagna, nata per abbattere una repubblica uscita da un regolare
responso delle urne era ancora molto vicino…
A non considerare che il disgraziato caso avrebbe posto in discussione
la presenza dell’Italia nel blocco occidentale. Come l’avrebbero presa,
gli americani? Certo, contro la loro potenza di fuoco, le armi
conservate sarebbero state poca cosa; ma l’importante è partecipare
(non accettare imposizioni: l’autodeterminazione è mia e me la gestisco
da solo). Per usare una frase retorica: meglio morire in piedi che
vivere in ginocchio.
Vorrei “si facesse convinto” (come dicono i napoletani) che, fino al
crollo del muro di Berlino, siamo stati una democrazia bloccata; sotto
tutela. Che ricorrendo determinate circostanze sarebbe avvenuto da noi
quello che è successo in Ungheria quaranta anni fa. Col senno del poi:
avevamo in casa, senza saperlo, perfino “i gladiatori” (Cossiga come
tale, mi fa un po’ ridere. Ognuno ha i cospiratori che si merita)!
Inoltre, consideri: fortunatamente non c’è stato bisogno di frugare per
pagliai; ma alcune volte, nella nostra storia recente, sono ricorse
circostanze in cui avere uno schioppo sotto mano non sarebbe stata una
jattura, se la situazione avesse preso quella brutta piega che
fortunatamente ci è stata risparmiata. Lei è incomparabilmente più
giovane di me (ho 66 anni), ma certo ricorderà il governo Tambroni;
successivamente il “Piano Solo” (oppure lo considera una fanfaluca
dell’”Espresso”?), la strategia della tensione…Junio Valerio Borghese,
Edgardo Sogno, la loggia P2… Le Brigate Rosse! Quel branco di
mentecatti (anche assassini, ma anzitutto imbecilli) che pensava ad una
sollevazione di popolo! In Italia! Le uniche rivoluzioni che ricordi,
su due piedi, sono il tumulto dei Ciompi e l’effimera Repubblica
Partenopea. Da noi esiste un solo modo per veder le barricate: vietare
l’uso dell’automobile e/o del cellulare (se salta addosso alla loro
moglie, agli italiani non gliene frega nulla). Il Paese che, mentre in
Francia hanno tagliato la testa al re, non ha trovato di meglio che
svendersi a un sovrano!
Prenda nota. Mi piacerebbe che la mia “sparata” sugli americani non mi
facesse risultare ai Suoi occhi come il solito anti-U.S.A. Al
contrario. E’ un Paese che ho amato molto (da un po’ di tempo, meno. Ma
vivaddio, proprio perché è mia patria putativa, mi sento autorizzato a
criticarla ogni volta che combina qualcosa che è contrario alle
premesse/promesse). Sono vissuto a cinema e letteratura americana. A
pensarci bene: sono 52 anni che lavoro (sono un artigiano; per la
precisione, un tappezziere in stoffa); leggo da 62 anni (la mia vita è
riassumibile in questi due punti); il 40% dei testi che possiedo (circa
3000 volumi) è nato nel Paese nella Libertà. Tradotti: non ho la
fortuna di conoscere l’inglese (ma sentendo come lo parla David
Letterman, non l’ha nemmeno lui. Mentre conosce bene l’americano. Come
disse Oscar Wilde: niente divide gli inglesi dagli americani come la
lingua).
Questo non mi esime dall’osservare che l’Europa deve gratitudine all’America per averla sottratta al nazifascismo (se non fosse intervenuta in guerra, saremmo tutti ariani; ovvero, tutti morti: anche se sopravvissuti). Tuttavia, non eterna. Anche in forza delle seguenti considerazioni:
1) Quando è entrata nel conflitto, era ben lungi dall’aver superato la crisi del ’29; con tutta la buona volontà di “Rosenfeld” (così i tedeschi chiamavano spregiativamente Roosevelt, attribuendogli inattendibili origini ebraiche) e del povero (disatteso) John Maynard Keynes. Fu la guerra a risolvere definitivamente la crisi.
2) Con la guerra, ha perso molti suoi giovani figli, ma ha guadagnato un impero, nel senso moderno del termine. Un mercato immenso per i suoi prodotti, anche culturali. Piango ognuna di quelle vite. Anzitutto per gratitudine; ma anche valutando che, sopra, qualcuno ha fatto un bel guadagnino: se questo non è sfruttamento, cos’altro?
…L’ultima, poi chiudo. Con tutto il rispetto per Suo padre, La scongiuro: gli eviti l’affronto di ricordarlo usando la “p” maiuscola. Non era dio. Né santo, come quello che è assiso sul soglio di Pietro.
Mi scusi se sono stato interminabile (consideri tuttavia che era nelle premesse). Spero almeno di averLa divertita con le mie stravaganze da neurodeliri. Quanto io mi sono sollazzato a stenderle; (probabilmente illuso) moralmente certo di averLe mostrato come si fa a tenere la barra dritta per seguire un filo logico. Il resto, è silenzio; come afferma Amleto (che però, subito dopo, muore): ovvero, giornalismo, con le sue approssimazioni; non sufficientemente giustificate dai limiti di tempo, e di spazio fisico di un quotidiano. Oppongo l’“elogio alla pagina bianca” di Mallarmé; o quasi: chiaro che capolavori non si possono pretendere. Accuratezza?
Con imperitura (ma fiorentina; con tutti gli inciampi del caso. Cfr. alla voce “Fallaci Oriana”)
cordialità,

ALBERTO EVA
Via Giovanni Boccaccio 104
50133 Firenze
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Caro Signor Eva,
le sue osservazioni non sono una replica. Sono un saggio. Ne riconoscerà la sproporzione – suppongo – con le mie dieci righe del Duello domenicale con Fini. E allora volendole sommariamente integrare senza peraltro appesantire i lettori di questa rubrica, mi limiterò a ricordarle che sotto tutte le latitudini i movimenti sovversivi hanno una base combattente e massimalista e una dirigenza politica, che appunto perché politica adatta la strategia alla mutevolezza delle condizioni storiche. Ebbene, terminata la guerra, il ‘’Migliore’’ capì che coin le truppe americane in casa era impossibile fare dell’Italia un’altra Cecoslovacchia o Polonia o Ungheria o qualunque altra delle democrazie popolari, come sino a diciassette anni fa erano chiamati i Paesi costretti a una fratellanza contronatura. Tuttavia non smantellò i quadri armati in attesa di qualche evento nuovo. Che non sopravvenne per il semplice motivo che a sorvegliare sul ritorno italiano alla democrazia c’era la superpotenza americana.
Grazie dunque all’Americo oggi siamo liberi e possiamo accapigliarci sulle ricostruzioni storiche di quegli anni tormentati. Su un punto concordo pienamente con lei. Pansa con i suoi libri scopre l’acqua calda. Che i comunisti italiani avessero come obiettivo di fondo l’instaurazione di una dittatura del proletariato è cosa scontata da tempo, a parere degli storici più accreditati. Pansa di suo ci ha messo una incredibile dose di opportunismo (ma anche questo, come la bravura, è una dote in un’economia di mercato) e ha sfruttato mirabilmente la sua originaria matrice ideologica di sinistra. Perché – caro Eva, spero che al riguardo lei sia a sua volta d’accordo con me – una verità storica non è tale se a proclamarla non è uno di sinistra, almeno in questo nostro Paese nel quale l’intellighentia condiziona tuttora il dibattito culturale.
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