A noi non rimane più niente

di Marco salvioli, 35 anni, Bologna
“Ma Marco, tu lo sai come cammina uno che è in quinta superiore?”. Questa è una domanda che mi rivolse un mio compagno di scuola, Daniele, una quindicina di anni fa. Non ho mai saputo rispondergli. Forse cinque anni non sono bastati per risolvere questo enigma, la mia generazione non era ancora pronta per questo tipo di quesiti, noi che siamo stati cresciuti a Goldrake e Nutella, che abbiamo passato la nostra infanzia a incastrare mattoncini colorati sul pavimento della nonna, e a vedere la penombra della luce del sole pomeridiano infrangersi sulle veneziane, e sentire quel lontano rumoreggiare di voci che rimbalzano di qua e là, le campane della chiesa scandire l’ultimo rintocco delle sei, interi pomeriggi con le braccia appoggiate sul davanzale, si tenta di vedere oltre la siepe, ma l’infinito rimane sempre in agguato! Lo sguardo resta immobile su quello che si ha intorno, al cerchio che si è formato fatto di sogni, persone a cui si è voluto bene e che si sono perse, fatto di qualcosa da ricordare per sempre. Qualcuno disse che i giorni importanti e indimenticabili della vita di ognuno di noi sono una decina, il resto fa volume. Dove sono le risposte, forse nelle aule di una scuola, in quell’ambiente stressato dal tempo che logora il ricordo di ogni alunno che almeno una volta si è seduto in quel banco, in quello stesso banco dove io, tempo fa, vedevo quello che vedevo oggi da un’altra angolazione, l’indescrivibile sensazione nel toccare un banco, la cattedra o un semplice gesso è qualcosa di incredibile, non
sono solo oggetti, ma qualcosa di più, qualcosa che neanche io riesco a comprendere, sono oggetti vissuti, sono oggetti stati. La scuola che ho frequentato per cinque anni è stata come una seconda casa, i compagni, gli
insegnanti e gli stessi bidelli come una seconda famiglia, non è retorica ma una bella avventura,
contornata da momenti caotici ma anche da grandi gioie, i miei ricordi si spingono al di là di un
ciclo della mia vita, stato molto di più, tanti tipi diversi di rapporti e di modi di essere, me ne accorsi fin dal primo giorno di questa forte percezione che si cela nella mia mente, ed era ancora là il giorno della maturità, nella mia ultima interrogazione. Sì, ero libero, ma a quale prezzo? Stavo abbandonando un pezzo della mia storia, forse quello più vissuto, un’esperienza indimenticabile. E poi con Daniele in macchina la solita musica, i
soliti discorsi, i soliti ricordi, ma i pensieri erano rivolti altrove. Era l’ultima volta che mi
portava a casa dopo la scuola. Gioco del destino o coincidenza, sono riuscito a tornare nell’ambiente scolastico, però dall’altra parte della barricata, sono un educatore, non so fino a che punto è stata una mia
scelta, forse qualcosa mi ha indicato la via, comunque sia mi ha reso molto felice: in un certo
senso, sono tornato a casa! Di anno in anno mi resi conto di quanto potevo essere utile ai miei ragazzi, la meravigliosa scoperta che quando trasmetti abilità anche tu diventi abile, quando trasmetti intelligenza
anche tu diventi intelligente, e trasmettere la speranza, la fa aumentare! Per questo ho iniziato il mio lavoro: per togliere l’opacità dagli occhi dei miei alunni! Ricordo ancora l’attimo esatto in cui vidi i loro occhi illuminarsi dall’interesse verso di me e su quello che stavo dicendo, e fu allora la prima volta che mi resi conto di quanto mi piacesse insegnare! Fare l’educatore può essere una risposta? Non so. La cosa importante è lasciare una traccia nei posti dove ci si ferma, messaggi meravigliosi di una speranza che tutti cercano. La felicità data da una ricchezza non vale niente se non può essere condivisa, il trionfo di un momento sarebbe avvelenato dalla solitudine. Confucio? No, un mio insegnante. Ditemi chi, almeno una volta nella vita, non ha mai sognato di essere il primo della classe, ma forse è stato meglio così. A scuola noi pensavamo soltanto a cercare di sopravvivere alla troppa razionalità che ci avrebbe circondato e all’interrogazione di storia di fine quadrimestre. La scuola cambia, gli amici crescono, le persone dimenticano e a noi! Boh, a noi non rimane più niente, solo i ricordi! Brutti? Belli? Non importa, sono nostri, per sempre. Forse la risposta sta in quei colli che si vedono in lontananza, quei colli tante volte sfrecciati in motorino con un amico particolare, urlando e sognando almeno per un po’, fino al giorno che io non ho capito, o forse non ho voluto capire il perché di un gesto così folle da non poter essere compreso, purtroppo non si possono controllare i demoni che ogni persona si porta con
sé, possono essere così malvagi da poter fare dimenticare il dono più bello che c’è stato dato: la vita.
Io ho provato, tentato di chiedere: “Dove vai amico mio? Perché?” Ti voglio bene: ti ricorderò. Nessuna risposta.
Mentre diventi grande, non fare domande: osserva, ascolta e aspetta, la risposta arriverà.

A mio cugino Ricki

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