Per il procuratore antimafia Grasso il 41bis è un fallimento e va riformato

Roma, 13 feb. (Adnkronos) - La legge che disciplina il regime carcerario del ‘41 bis’ per i mafiosi va rivista: sia perchè diventa di sempre più difficile applicazione -come dimostrano i numeri in costante diminuzione per quanto riguarda i detenuti ai quali si applica l’articolo previsto dal Codice penale- sia perchè in realtà i capi clan continuano con vari espedienti a comunicare con l’esterno e, dunque, sono tutt’altro che isolati in carcere.
A ribadire la necessità di modifiche legislative è il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, nel corso della sua audizione a palazzo San Macuto davanti alla commissione parlamentare antimafia.
Spiega infatti Grasso: «La legge che doveva risolvere il problema in realtà, attraverso l’interpretazione dei Tribunali di sorveglianza e della Corte Costituzionale, non dà gli effetti sperati. D’altra parte, le indagini dimostrano che continuano a esserci le fughe di notizie dall’interno delle carceri, attraverso i mezzi più disparati. Quindi, bisogna trovare una soluzione, visto che il regime del ‘41 bis’ è utile per continuare il contrasto alla mafia». Tra le soluzioni, Grasso suggerisce di «pensare a un cambiamento alla base dell’istituto, considerandolo come una forma di pena accessoria per determinati reati; e di istituire una sorta di indagine, da parte della Dia, sul detenuto sottoposto al ‘41 bis’ per vedere se si riesce a coglierlo mentre continua ad avere collegamenti con l’esterno». Gli espedienti usati dai mafiosi per inviare messaggi fuori dal carcere sono i più disparati.
Il procuratore antimafia ne elenca alcuni, che definisce «esemplari»: dall’occultamento dei bigliettini sul retro dei termosifoni nelle docce o sotto le finestre, ai fogli nei panini ai quali si dà un solo morso, dalle conversazioni nelle sale di videoconferenza durante la celebrazione dei processi ai messaggi convenzionali affidati ai parenti durante il colloquio con i familiari, dalla corruzione di personale sanitario per essere trasferiti nei centri clinici ai bigliettini con singole parole scritte sui fazzolettini di carta poi ricuciti nella patta interna dei pantaloni.
Ma l’attenzione di Grasso si appunta soprattutto sul fatto che sono sempre meno i detenuti sottoposti al regime carcerario previsto dal ‘41 bis’: oggi sono 521, di cui 455 presi direttamente in carico dall’amministrazione penitenziaria. Un numero in costante diminuzione, con un calo di 245 detenuti negli ultimi quattro anni: 60 in meno nel 2003, 35 nel 2004, 45 nel 2005, 93 nel 2006 e 12 già nel primo mese del 2007.

Per Grasso in Sicilia è nata la “borghesia mafiosa”
«Si è creata in Sicilia una nuova classe sociale, che potremmo definire come ‘borghesia mafiosà, collegata con l’organizzazione criminale per diretta complicità, per connivenza o anche solo per neutrale indifferenza rispetto agli affari di Cosa Nostra». È quanto sottolinea il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso nel corso
dell’audizione a palazzo San Macuto davanti alla commissione parlamentare antimafia, dedicata alla situazione in Sicilia, dopo aver già analizzato nelle sedute precedenti le organizzazioni criminali della Calabria, della Puglia e della Campania. Questa nuova classe sociale, formata da professionisti e tecnici specializzati, burocrati e imprenditori ma anche esponenti politici, è l’effetto diretto dei «capitali criminali reinvestiti in attività economiche e finanziarie lecite, ritenute meno rischiose e più remunerative dai clan mafiosi», spiega Grasso.
Capitali frutto dei proventi derivanti dagli appalti pubblici, i cui lavori vengono ottenuti con il sistema delle cordate che permette di minimizzare e controllare preventivamente l’offerta, come dalla capillare azione estorsiva, mentre la mafia siciliana cerca di reinserirsi anche nel narcotraffico, al momento controllato soprattutto dalla ‘ndrangheta calabrese e in parte dalla camorra napoletana.
«Per analizzare la situazione interna a Cosa Nostra -afferma il procuratore- l’operazione Gotha si è rivelata persino più preziosa della stessa cattura del boss latitante Provenzano». Azione che ha «permesso una ricostruzione storica delle vicende interne alla mafia siciliana degli ultimi vent’anni, con le sue dinamiche e i suoi messaggi, dai mandanti degli omicidi di capiclan alla censura per il monito che papa Wojtyla lanciò parlando dalla Valle dei Templi durante il suo viaggio in Sicilia». È emersa «la conferma del carattere unitario di Cosa Nostra e della sua struttura sovraprovinciale», osserva. Il procuratore antimafia sottolinea che «neanche la reclusione in carcere fa venire meno la carica di capo mandamento: i vertici vengono soltanto temporaneamente sostituiti da reggenti, che ne esercitano le funzioni sul loro territorio». E a tal proposito, «è bene che le istituzioni -avverte-
mantengano alta sul territorio la pressione investigativa. Occorre continuare su questa linea», incoraggia, per contrastare efficacemente quella «strategia dell’inabissamento» scelta da Cosa Nostra per gestire con più tranquillità i suoi affari. Grasso analizza provincia per provincia, ne nomina otto sulle nove in Sicilia, con la sola esclusione di Siracusa, il fenomeno criminale mafioso, che continua ad avere il suo epicentro storico a Palermo e nelle altre due province occidentali di Trapani e di Agrigento; sulla sponda orientale resta più variegata la situazione a Catania, con legami a Messina e a Gela, mentre nell’entroterra di Ragusa si fa largo la nuova mafia d’importazione marocchina.

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